L’argomento che rimetto sul tavolo è la ricrescita del sistema economico nazionale, che passa per la performance di quasi 2 milioni di micro e piccole imprese. Credetemi, da questo interrogativo non si può evitare di passare. Se anche volessimo tante grandi imprese eccellenti, purtroppo in Italia non ci sono e non le possiamo creare in meno di 10 anni. E l’Italia non ha 10 anni di tempo.
Dai dati del 9° censimento sulle imprese l’Istat nel capitolo 2 (“Il sistema delle imprese italiane”) ha tratto una serie di osservazioni sulle dinamiche di comportamento delle imprese italiane durante il periodo di crisi. Il campione su cui ha lavorato l’istituto di statistica è di grande quantità: 260.000 imprese con addetti superiori a tre, e per cogliere anche il fenomeno delle micro–imprese un campione di 20.000 imprese “micro–star” (su un totale di 1,7 milioni) con meno di tre addetti ufficiali ma fatturato superiore a 750.000 euro o valore aggiunto superiore a 260.000. Il tasso di risposta al questionario è stato altissimo, pari al 95 per cento.
Un primo passaggio viene fatto per qualificare la natura familiare o manageriale delle nostre imprese e mostra che la dimensione familiare tocca il 30% delle grandi imprese e sale fino al 70% delle micro.
Non è solo la dimensione della proprietà che mostra la presenza della componente familiare, ma anche quella della gestione:
Piccolo può essere anche veloce e bello
L’analisi dell’Istat prosegue con una profilazione delle imprese censite sugli assi che spiegano le strategie aziendali: dinamismo aziendale, proiezione estera e complessità organizzativa e il loro successivo raggruppamento in categorie omogenee (i cosiddetti “cluster”).
La diversa combinazione dei profili permette di ricostruire le effettive strategie aziendali. Sulla base di questi è stato possibile individuare cinque tipologie di impresa utilizzando la tecnica di analisi dei gruppi (cluster analysis, Tavola 2.2)
Il primo gruppo (“Piccolo cabotaggio”) include la grande maggioranza delle unità produttive (circa il 78 per cento delle imprese) attive nella manifattura tradizionale, nelle costruzioni, nei servizi alla persona e di intrattenimento, nel commercio (soprattutto al dettaglio), nei servizi di alloggio e ristorazione. Si tratta di imprese di dimensioni ridotte (impiegano in media 5 addetti, rispetto agli 8 del complesso delle imprese), poco dinamiche, rivolte prevalentemente a un mercato locale (comunale o regionale) e con un’organizzazione aziendale molto semplificata: è molto pervasiva la presenza di imprese a controllo familiare mentre sono pressoché assenti esempi di gestione manageriale. Anche le innovazioni e la riorganizzazione dei processi sono limitati, al pari della integrazione nelle catene del valore, soprattutto internazionali. In questo contesto le imprese dichiarano di adottare soprattutto strategie di tipo difensivo, orientate al mantenimento delle quote di mercato.
A un estremo idealmente opposto si trova il quinto gruppo (“Unità complesse”), che comprende meno dell’1 per cento delle imprese. Le unità di questo gruppo sono prevalentemente di media e grande dimensione (impiegano in media 111,3 addetti), sono accomunate dalla presenza di un dinamismo e una proiezione sui mercati internazionali relativamente elevati, e soprattutto dalla maggiore complessità organizzativo–gestionale tra tutti i cluster considerati: qui più che altrove prevalgono organizzazione in gruppo (con imprese in posizione di controllo), gestione manageriale e partecipazioni azionarie di maggioranza detenute da soggetti esteri. È forte anche la presenza di accordi produttivi con controparti estere. In generale, il cluster comprende imprese attive in settori manifatturieri high–tech come chimica e farmaceutica, in attività a elevata intensità di capitale, nel commercio all’ingrosso e in comparti del terziario avanzato come le telecomunicazioni e i servizi finanziari. Per queste imprese, caratterizzate da una produttività del lavoro molto elevata e da una dinamica occupazionale (+3,3 per cento) superiore alla media negli anni più difficili della crisi, le strategie sono orientate all’ampliamento della gamma dei prodotti e servizi offerti e alla tutela delle quote di mercato su scala internazionale.
Strategie altrettanto espansive – a cominciare dall’arricchimento dell’offerta e dall’accesso a nuovi mercati – e una performance occupazionale (+8,1 per cento) nettamente più intensa rispetto a tutti gli altri gruppi identificano le imprese del quarto gruppo (“Dinamiche spinte”). Quest’ultimo comprende solo il 4 per cento del totale delle imprese, con una dimensione media relativamente contenuta (15,4 addetti), ma presenta il profilo strategico più dinamico: si trovano qui le unità che fanno più ricorso a innovazioni di prodotto, di processo, organizzative e di marketing, e che hanno una proiezione internazionale relativamente elevata. Tali aspetti sembrano compensare un profilo organizzativo poco complesso, dominato dalla presenza di imprese familiari, non manageriali e in prevalenza non appartenenti a gruppi. Si tratta quindi di imprese molto dinamiche, attive per lo più in settori manifatturieri (soprattutto alimentari, prodotti in metallo, macchinari) e servizi di informazione e comunicazione. […]
Commento
Siamo di fronte a una delle molte ricerche che evidenziano tutti i limiti del capitalismo molecolare italiano, fatto al 95% di micro imprese, al 70%, a controllo familiare e senza veri meccanismi di gestione o competenze manageriali. La ricerca Istat non si ferma lì e sempre sulla base di parametri oggettivi prelevati dalle autodichiarazioni degli imprenditori ci mostra un quadro complessivamente espressivo dei grandi limiti della piccola impresa oppure della grande paralisi che le ha colpite in larga parte.
– 70% delle imprese con strategie difensive per conservare la quota di mercato;
– 45% delle imprese con comportamenti statici e di conseguenza bassa performance
– 78% di imprese molto piccole, basate su un mercato locale (ritorna il tema del post ‘Il mondo e la provincia: i numeri da ricordare‘) poco dinamiche, senza elementi di gestione manageriale.
La sfida del paese e delle associazioni che rappresenta la piccola impresa è tutta qui: trasformare una parte significativa di quel 78% di piccole imprese da soggetti di “piccolo cabotaggio” a piccole imprese “dinamiche” senza stravolgere completamente la componente familiare e senza improbabili salti di scala dimensionale. Il gruppo di imprese dinamiche in fondo ha una dimensione media di soli 15 addetti e una complessità organizzativa tutto sommato bassa. Non si tratta di rifugiarsi nello sterile e poco pratico “piccolo non è bello”, bensì di trovare i modi e i percorsi per fare diventare le piccole imprese anche belle, efficienti, produttive e dinamiche, magari evitando che siano troppo piccole (la micro dimensione effettivamente non porta molto lontano). Si tratta di iniettare nella piccola impresa dosi di creatività, dinamismo e competenze manageriali per mettere il turbo nel loro piccolo scattante motore.
Questa è la sfida che alcune associazioni hanno già colto, ma che lo Stato e il Governo non ha ancora capito. Anzi sin qui ha fatto l’esatto contrario, creando con una mano maldestra condizioni burocratiche, fiscali e di diritto del lavoro invivibili per la piccola impresa – l’unica che ancora crea occupazione – e con l’altra generosa tentando di salvare grandi imprese decotte da tempo. Qualsiasi politico che ha in mente di dare una mano all’economia e non ha ancora trovato la ricetta dovrebbe leggersi e interpretare questi dati per capire la strada da prendere.
* articolo originariamente pubblicato su www.linkerblog.biz
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