4 volumi pubblicati in 15 mesi, tutti nella classifica di Amazon dei libri più venduti dell’anno. Decine di migliaia di copie vendute, file chilometriche ad ogni firma copie, pienoni ad ogni presentazione, un fandom in crescita esponenziale, assolutamente inedito per un fumetto italiano. Queste sono le caratteristiche principali del fenomeno pop italiano dell’anno, e non solo dal punto di vista del fumetto.
Artefice di tutto questo è Zerocalcare, all’anagrafe Michele Rech, trentenne romano attivo da dieci anni nel mondo del fumetto underground, delle fanzine militanti e dei centri sociali della capitale, ma soltanto di recente lanciato nella mischia del mercato del fumetto italiano mainstream, prima da Makkox, che ci ha creduto e investito personalmente per far uscire il primo albo, La profezia dell’armadillo, poi da Bao Publishing, la casa editrice che negli ultimi mesi lo ha pubblicato.
Come già avevamo fatto con Masterpiece, in questa occasione abbiamo provato a mettere una a fianco all’altra due opinioni discordanti sul fenomeno. La prima, quella di Adriano Ercolani, è a suo favore, la seconda, di Andrea Coccia, è contro. Ora tocca a voi leggere e schierarvi. In fondo, come al solito, trovate un form per votare l’opinione in cui vi rispecchiate di più. Che vinca il migliore.
Zerocalcare rappresenta indubbiamente il più grande fenomeno editoriale del fumetto italiano degli ultimi anni. L’unico autore, dopo l’exploit di Gipi, a scalare le classifiche dei libri più venduti, sfidando i mostri, sacri e non, della letteratura.
Come all’apparire di ogni “fenomeno” culturale o di costume, subito si è configurato lo scontro dialettico in stile guelfi/ghibellini: da un lato la schiera immensa dei fan, ma anche di molti critici, che lo acclamano come grande comunicatore e salvatore delle sorti del fumetto nazionale; dall’altro un consistente coro di detrattori, che condanna il facile successo di un autore giudicato banale e qualunquista. Il primo punto di vista è sviscerato in questa interessante conversazione tra l’autore, Roberto Recchioni e Matteo Stefanelli. L’accusa di eccessiva facilità può essere invece riassunta, con la consueta vis dialettica dell’autore, da questa vignetta di Aka B. Grande dibattito ha generato questo recente articolo sul sito Fumettologica, tale da indurre il solitamente schivo autore a una circostanziata risposta.
La domanda rimane: perché Zerocalcare piace cosi tanto? Procediamo dal particolare verso l’universale.
Sono concittadino e quasi coetaneo di Zerocalcare, ho frequentato o comunque conosco gli stessi posti dove lui è cresciuto, dunque l’immaginario, l’umorismo e le ambientazioni delle sue storie mi sono intimamente familiari. Temi come i risvolti cristologici della figura di Ken Shiro, oppure il potere liberatorio, quasi mantrico dello “sticazzi” sono incisi nel DNA della mia formazione filosofico-culturale.
Una delle prime risposte alla domanda potrebbe essere, quindi, che i suoi fumetti sono assurti a una sorta di enciclopedia tribale degli attuali trentenni romani che abbiano nella loro adolescenza seguito percorsi comuni (centri sociali, musica non mainstream, passione per videogiochi e cartoni animati etc.). Ma questo configurerebbe il tutto come un fenomeno di nicchia, molto connotato a livello generazionale, geografico e culturale. E invece, il successo è nazionale, e conquista lettori che potrebbero essere padri dei protagonisti delle storie.
D’altro canto, la forte identità romana di Zerocalcare sembra non essere per nulla un freno all’apprezzamento al di là delle Mura Aureliane (ci torneremo tra poco). Pensiamo ad una vignetta come questa, che teoricamente non dovrebbe far ridere al di fuori del G.R.A..
Eppure, in una recente presentazione al Castello Sforzesco si sono ripetute le stesse scene a cui siamo ormai abituati nella Capitale: i lettori milanesi hanno atteso per sei ore, ben oltre l’orario di chiusura ufficiale, disciplinatamente in fila per ottenere una dedica. Zerocalcare, con la consueta disarmante disponbilità, ha firmato le copie al freddo su una panchina dei giardini esterni al Castello.
Dunque, qual è il quid di questi fumetti? Paradossalmente, per chi scrive una delle chiavi del suo successo è proprio la profonda romanità della sua comicità. Non parlo per campanilismo, credetemi. Il sarcasmo romano non ha la secchezza bruciante di quello toscano, il musicale dileggio di quello genovese o la barocca fantasia di quello napoletano. Ma ha un’arma peculiare, connaturata al concetto stesso di comico: il gusto del grottesco e dell’iperbole.
Mi appellerò a Bruno Cagli, che parlando (su piani infinitamente più elevati) dell’universalità del Belli, ricordava come per Aristotele il comico nascesse dall’assurdo. Ed è proprio la capacità tipicamente romana (dal Belli a Trilussa, da Petrolini a Proietti, per tacere dei volgari cabarettisti) di esasperare grottescamente le innumerevoli assurdità che costellano la nostra quotidianità a spiegare la risata a voce alta che Zerocalcare strappa quasi a tutti.
Ma, attenzione, non c’è solo questo. Sarebbe limitante definirlo una sorta di Enrico Brignano “alternativo”. Anche se distribuite con disinvoltura, tra i tanti ammiccamenti giocosi al lettore, ci sono anche vette di colta arguzia. La battuta “È colpa di Voltaire se abbiamo Povia” (per via della celebre frase attribuitagli “non condivido la tua idea ma darei la vita perché tu la possa esprimere”) è un definitivo epitaffio del politicamente corretto.
Come sottolineato da Makkox, nella famosa introduzione a La Profezia dell’Armadillo, Zero ha il dono di una “leggerezza” narrativa che evidentemente conquista lettori anche molto diversi. Un’innocenza fondamentale, che rende il suo linguaggio, per quanto speziato dal turpiloquio e dal vernacolo, efficace, allegro e mai pesante. Del resto, uno dei più celebri assunti dell’autore è proprio: “nessuno guarisce dalla propria infanzia”. Ed è proprio la freschezza di questo sguardo infantile a rendere (quasi) a tutti gradevoli e riconoscibili le storie di Zerocalcare.
Poi, certo, ci sono dei limiti, evidenti, riconosciuti con grande onestà dallo stesso autore.
Per quello che mi riguarda, il suo umorismo, rimanendo nell’ambito dei fumettisti contemporanei, non ha né la carica eversiva di maicol&mirco, né l’eleganza erudita di Tuono Pettinato. Ovviamente, è follia assoluta scomodare Andrea Pazienza (come lucidamente illustrato da Zero stesso nella risposta sopra linkata).
Nel dettaglio, il suo ultimo libro, “Dodici”, pur nell’apprezzabile tentativo di evadere dalle forme collaudate, tradisce un pò di fatica a livello di narrazione. Un pò lo stesso effetto che fa vedere il film dei Simpson o di Boris (cito apposta due esempi che non c’entrano nulla né con Zero, né fra di loro, perché mi riferisco ad una dinamica generale): il ritmo delle battute e delle situazioni comiche, che si esalta nell’abituale respiro breve della striscia o della puntata tv, diluito in una narrazione più ampia smarrisce brillantezza e perde d’impatto.
Ma non comprendo le motivazioni dell’accanimento critico. Dal punto di vista umano non può che farmi piacere il successo di un “pischello” della mia generazione che pubblica le sue storie, dal punto di vista artistico, è semplice: basta prenderle per quello che sono.
Storie semplici, spontanee, di comune quotidianità, raccontate con leggerezza e intelligenza.
Scandalizziamoci per la laurea ad honorem di Fabio Volo, non per il successo di un giovane ed onesto fumettista. Le condanne intellettuali fondate sulle generalizzazioni sono il rovescio della acriticità superficiale del pubblico dei cinepanettoni.
Per cui, si, io salvo Zerocalcare, alla faccia del un pregiudizio snob (no, non userò la parola hipster perché vuol dire un’altra cosa!) nei confronti di qualsiasi cosa abbia successo.
Un teorema sbilenco che conduce alla zoppicante equazione: successo = mainstream = monnezza.
Con tanti saluti da parte di Darth Vader, John Lennon e Pablo Picasso.
Se questo articolo fosse un calcio di rigore e tu, caro lettore, il portiere che lo deve parare, sono certo che in questo momento – quello topico in cui l’attaccante guarda negli occhi il portiere prima della rincorsa e del calcio – saresti sicuro di sapere come lo calcerò.
Pensandomi come uno che critica qualsiasi cosa abbia successo, pensandomi come uno snob che rifugge qualsiasi cosa piaccia a più di tre persone, tu, portiere-lettore, mi vedresti come l’attaccante snob, talmente sicuro di sé da prendere una gran rincorsa, arrivare sul pallone e farti lo scavetto, il tottiano cucchiaio. Il rigore arrogante per eccellenza, che soltanto chi si sente superiore può pensare di calciare.
E invece, caro lettore-portiere, ti dico subito che le mie intenzioni sono altre, che non parto da posizioni prevenute e che non provo nessun rancore snob verso Zerocalcare, tutt’altro. E poi, caro lettore-portiere, io ti rispetto troppo per farti il cucchiaio. E questo rigore lo tiro nell’angolino alla tua sinistra, te lo dico già. Ora prova a prenderlo, se ci riesci.
Cominciamo da un dettaglio fondamentale, che non dovete dimenticare nemmeno per un istante mentre leggete questo articolo: a me Zerocalcare piace.
Detto questo, le cose che critico duramente in questa faccenda sono due: la prima riguarda la strategia editoriale adottata da Bao Publishing per la pubblicazione di Zerocalcare; la seconda è l’effetto collaterale che il successo del fenomeno può avere sulla mia generazione.
Zerocalcare ha iniziato a pubblicare i suoi fumetti con la Bao Publishing a luglio del 2012, con una riedizione de La profezia dell’armadillo – colore 8 bit. Da quel momento al settembre del 2013, Zerocalcare ha pubblicato per Bao altri 3 volumi: Un polpo alla gola, Ogni maledetto lunedì (su due) e Dodici. In tutto fanno 4 libri in 15 mesi, ovvero un libro ogni 4 mesi scarsi.
Contemporaneamente Zerocalcare, sull’onda del grandissimo e pressoché unanime successo, è stato portato in giro da Bao per tutti i festival d’Italia, in ogni città, in ogni quartiere, facendo in piccoli pezzettini qualsiasi record di vendita di un fumetto italiano nella storia dell’editoria. Creando file per gli autografi chilometriche (non è un’iperbole) fenomeno decisamente inedito, e non solo per un fumettaro.
«E allora – direte voi – qual è il problema? Sei il solito rosicone snob!»
Il problema per me è molto semplice. Pubblicare 4 libri in poco più di un anno è occupare il mercato. Tanto più che di quei libri se ne sono vendute decine di migliaia di copie (4 ce le ho a casa io). E questa occupazione ha, io credo, due effetti nocivi: uno per il mercato, l’altro per Zerocalcare stesso.
L’effetto nocivo per il mercato è paragonabile a quello della monocultura sulla biodiversità agricola mondiale (che è uno dei motivi per cui l’umanità esiste, tra le altre cose). Chi dice che il successo di vendita di Zerocalcare fa bene al mercato del fumetto credo che si sbagli, soprattutto perché sopravvaluta il portafoglio dei suoi lettori, la cui età oscilla tra i 15 e i 30 anni. Una fascia di pubblico che ha molto poco da spendere. Frequentando molte fiere del settore, da Napoli a Lucca, ho sempre notato che la gran parte del pubblico che attendeva in fila per Zerocalcare aveva i sacchetti pieni di albi di Zerocalcare, non altri. La mia deduzione è dunque che la gran parte dei suoi lettori non acquistino altro.
Ma questo sarebbe l’effetto secondario minore, in fin dei conti il pubblico è libero di scegliere quel che vuole portarsi a casa, e che la Bao riesca a guadagnare con Zerocalcare fa bene agli altri libri di Bao, che avendo dei buoni guadagni da una parte può rischiare di più su altri fronti. L’effetto secondario che temo di più è quello che riguarda proprio Zerocalcare.
Il mio timore è infatti che questa sovraesposizione editoriale finisca per prosciugare Zerocalcare, sia artisticamente che fisicamente, perché fare autografi, sorrisi, strette di mano e disegnini per sei ore di seguito, ogni tanto anche per 4 o 5 giorni di seguito, è una robetta che può facilmente prosciugare le energie, fisiche e intellettuali, di chiunque.
Purtroppo a settembre, quando è uscito Dodici, ho avuto prova che quel timore si stava avverando. Dodici è un fumetto inefficace, che sembra fatto su ordinazione mettendo, in mezzo a una narrazione che manca di mordente ed è in fondo noiosa, un po’ di dettagli del buon vecchio Zerocalcare, quelli che ci hanno fatto aspettare febbrilmente ogni nuova storia del lunedì, i marchi di fabbrica che, seppur come al solito genuini, privati dell’urgenza ossessiva che era l’innesco della potenza delle storie del lunedì, sembrano pallidi segnalibri ammiccanti.
Credetemi, non scrivo questo a cuor leggero, e quando ho letto Dodici e ho provato queste sensazioni mi è molto spiaciuto.
Mi è spiaciuto perché Zerocalcare io credo che si meriti di maturare e di crescere come artista, perché un misto di beffarda ironia e di impegno politico e sociale come quella che ha lui è molto, ma molto difficile da trovare nel panorama esistente del fumetto. È una miscela esplosiva, ed è, io credo, la cifra stilistica più interessante della generazione di Zerocalcare, che poi è anche la mia.
Passiamo al secondo punto, alla seconda cosa che non riesco a mandare giù di questa faccenda. Ovvero l’effetto collaterale che il fenomeno Zerocalcare può avere sulla mia generazione.
Uno degli elementi più caratterizzanti di Zerocalcare, che è anche uno degli ingredienti del suo successo, è la nostalgia per gli anni dell’adolescenza, una nostalgia che è una sorta di rassicurante ripiegamento su se stessi, sulle proprie certezze. Un riflesso generalizzato e abbastanza giustificato per una generazione che ha vissuto un profondo shock: è cresciuta con la percezione di un mondo – quello degli anni Novanta – in continua e perenne crescita, di ricchezza, di felicità e di realizzazione personale, e che si è invece ritrovata cresciuta in un mondo in cui tutte quelle aspettative sono state frustrate.
Ma il fatto che possiamo essere giustificati a rivivere con un sorriso malinconico i fasti della nostra adolescenza non comporta il fatto che quello che dobbiamo accettare supinamente la difficile realtà che stiamo vivendo in questi anni.
Il pericolo insito nel mitizzare e nel ripiegarsi nostalgicamente su quel passato è condannarsi a una sindrome di Peter Pan permanente, il che è esattamente quello che non possiamo più permetterci.
L’unico modo che la nostra generazione ha di uscire dal pantano in cui si è ritrovata è diventare adulti, riprendere a crescere in fretta e prendersi al più presto le responsabilità che ci competono. Arrivati a trent’anni non possiamo più permettere che ci chiamino bollino come giovani, soprattutto nel mondo del lavoro. È un’etichetta molto rassicurante, che ci toglie la pesante responsabilità di poter sbagliare o, peggio, fallire, ma è anche un’etichetta che ci condanna ad essere per sempre dei subalterni, degli stagisti, degli junior, il che, a trentanni, è il metodo migliore per costruirsi un solido futuro da frustrati.
Qui ovviamente Zerocalcare non c’entra nulla, qui sotto accusa sto mettendo il suo pubblico, sto mettendo noi, che fino a quando ci accontentiamo della rassicurante etichetta di giovani, ci autoescludiamo dal prendere in mano il nostro futuro.