Australian Open e la saggezza delle vecchie glorie

Tennis internazionale

Ci sono molti motivi per cui l’Australian Open viene chiamato lo Slam Felice: Melbourne Park, la sede del torneo, è un complesso polifunzionale dove accanto alle arene del tennis ci sono altri due stadi per grandi eventi sportivi e non, il tutto costruito accanto allo scorrere placido del fiume Yarra e a pochi minuti a piedi dal cuore della città. Quasi tutti gli altri tornei del mondo si nascondono ai margini delle metropoli che li ospitano, mentre in Australia i campi sono circondati dai palazzi del centro, riempiti da un pubblico entusiasta e cresciuto nel nome della nobile cultura aussie del dare tutto sul campo, e soprattutto orgogliosi sostenitori del dover essere gracious in defeat.

Mentre gli altri major sono sempre stati appuntamenti fondamentali della stagione tennistica (Wimbledon su tutti), l’Australian Open per decenni è rimasto ai margini a causa della lontananza dall’Europa e dagli Stati Uniti, giocato perlopiù dai talenti locali. Prima collocato a fine stagione, poi spostato all’inizio del nuovo anno, il torneo ha addirittura cambiato sede diverse volte, toccando persino due città neozelandesi prima di stabilirsi definitivamente a Melbourne dal 1972. Dopo 16 anni sull’erba del modesto Kooyong Lawn Tennis Club, nel 1988 viene spostato a Melbourne Park in degli impianti nuovi di zecca, dove la superficie diventa cemento e sul campo centrale viene persino messo un tetto retrattile. Copertura che viene usata più per l’eccessivo caldo che per la pioggia, dato che l’Open d’Australia è l’unico Slam che si gioca in piena estate, libero da quelle giornate di partite a singhiozzo che affliggono Parigi, Londra e New York.

È un torneo che invece di investire sul passato ha scelto di costruire la propria identità sulla capacità di reinventarsi, sull’efficienza e sull’entusiasmo del pubblico. Ormai appuntamento a cui si presentano tutti gli atleti più forti, non ha l’austerità del cemento grigio del Roland Garros o l’ordine collegiale dell’edera londinese, piuttosto si propone come una festa dello sport. Curiosamente quest’anno la tradizione si è riaffacciata persino sui campi del torneo di Melbourne, quando pochi giorni fa Roger Federer ha invitato in un match di beneficienza Rod Laver a palleggiare sul centrale dell’Australian Open, dentro quell’arena che porta il suo stesso nome. Come in un universo parallelo di incontri immaginari, l’ultimo vincitore di un Grand Slam (tutte le quattro prove major in uno stesso anno) si è presentato a 75 anni in completo bianco e cardigan per palleggiare con colui che più si avvicina a esserne un omologo contemporaneo: Federer, che giunto ai 32 anni viene scrutato in ogni sua mossa per decifrare i segni del suo lento e (ormai) costante declino, lui che più di qualsiasi rivale ha unito potenza e stamina del tennis contemporaneo con il tocco e il gioco della tradizione, atleta adorato ma al tempo stesso non più imitato, sostituito da un diverso modo di insegnare il gioco. «La racchetta mi sembra un po’ pesante, devo confessare», ha detto con perfetta umiltà e deferenza durante i pochi scambi con Laver, che gentilmente gli aveva chiesto di tirargli solo sul dritto perché il polso gli faceva un po’ male.

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A fine dicembre Federer ha annunciato una collaborazione con Stefan Edberg, per ora un trial di dieci settimane dopo il quale decideranno come proseguire l’esperimento di coaching. Edberg è stato interprete di un gioco d’attacco che in gran parte è scomparso insieme a lui, uno degli ultimi artisti della rete a essere riuscito a affermarsi in una fase di transizione in cui il gioco da fondocampo stava prendendo il sopravvento, togliendo il tempo al serve & volley con quello che è stato definito power baseline tennis. Poi c’è stato Pete Sampras, ma il suo stile incorporava una maggiore solidità e potenza da fondo, mentre Edberg compensava con la sua capacità unica di impostare lo scambio per chiudere il punto in avanti. Poco prima di Federer, Novak Djokovic aveva annunciato la sua collaborazione con Boris Becker, tennista offensivo come Edberg ma con un gioco virato molto di più verso l’esplosività e il rischio, a cominciare dal servizio. Come in una reazione a catena il panorama dei coach superstar si è andato allargando: Marin Cilic si è unito a Goran Ivanisevic, Kei Nishikori ha chiamato Michael Chang, Richard Gasquet si farà accompagnare da Sergi Bruguera. Il capostipite di questo trend è stato Andy Murray, che all’inizio del 2012 ha chiamato Ivan Lendl e con cui ha vinto due slam, l’US Open nel 2012 e Wimbledon l’anno scorso. Anche nel tennis femminile sono comparsi sintomi della moda delle vecchie glorie: Maria Sharapova ha ingaggiato Jimmy Connors dopo aver perso al primo turno a Wimbledon, ma poi l’ha licenziato dopo una sola partita per ragioni non chiare. 

Cosa ci sia dietro questa ondata di leggende chiamate a sedere agli angoli dei tennisti durante il 2014 è difficile dirlo: carisma, immagine, esperienza? Cosa chiedono i giocatori di oggi a tutti questi vincitori di Slam, e cosa questi possono dare, dato che ad esempio Becker e Edberg non hanno praticamente mai allenato? Il tennis degli anni ’80 e ’90 è stato un periodo d’oro rimasto nella memoria collettiva: Connors, Borg, Mcenroe, Becker, Edberg, Lendl, c’è stata una manciata di anni in cui sui campi si sfidavano plurivincitori di major, ognuno con un diverso stile e personalità che davano la giusta dose di teatro alla competizione. Oggi chi conosce Cilic o Nishikori, oltre agli appassionati? Nessuno. Eppure quasi tutti conoscono Ivanisevic, anche se non è mai stato numero 1 e ha vinto un solo Wimbledon a fine carriera. Forse il tennis di oggi, così normalizzato sia nei comportamenti che nel gioco espresso in campo, ha bisogno della suggestione di questi personaggi iconici, che hanno passato anni a sfidarsi e a strapparsi titoli l’un l’altro e che ora andranno a sfidarsi a bordo campo, magari solo con lo sguardo. Come in Real Steel, un brutto film di qualche anno fa in cui Hugh Jackman interpreta un ex pugile in un futuro prossimo dove la boxe viene combattuta da robot, manovrati da umani che a bordo ring mimano i colpi che vengono sferrati dai loro alter ego meccanici. E i tennisti di oggi un po’ meccanici lo sono, ripetitivi, instancabili. «Oggi tutti pensano “ok, adesso faremo due ore di scambi da fondo”», scriveva Pat Cash qualche mese fa lamentandosi della monotonia del tennis di oggi. «Ormai vince chi tra i due resiste di più, ma così il gioco ha perso molto dal lato tecnico».

Nell’Australian Open che comincia lunedì prossimo forse scopriremo il significato di questa richiesta d’aiuto ai campioni passati, se le tattiche cambieranno oppure avremo soltanto qualche volto familiare in più da inquadrare durante i cambi campo. Intanto il tabellone del torneo è stato sorteggiato, e il campione in carica Djokovic si trova praticamente solo nella propria metà, con Murray, Federer, Nadal e Del Potro tutti stipati nell’altra a lottare per un posto nella finale del 26 gennaio. Difficile che Djokovic non arrivi a giocarla, molto più incerto chi ce la farà tra gli altri quattro, anche se con Federer preso tra cambi di racchette  e il peso dell’anagrafe, Murray reduce da un intervento alla schiena e Del Potro che gioca con solo due racchette, se Nadal somiglia anche vagamente a quello dell’anno scorso il posto sarà suo. Nel tabellone femminile i quarti di finale si presentano più equilibrati, ma Serena Williams appare comunque insuperabile, avendo già vinto il primo trofeo dell’anno a Brisbane. Un solo dato a spiegare la situazione nel singolare femminile: contro le altre top 5 la numero uno Serena ha un parziale complessivo di 47-6. Per seguire gli incontri poco sonno e molti sotterfugi lavorativi: la sessione diurna comincia intorno all’una di notte ora italiana, quella notturna alle 9 circa della mattina.

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