Si è parlato molto di diseguaglianza negli ultimi tempi – ne trattano i politici, ne scrivono i giornali e ne discutono gli economisti: da Paul Krugman sul New York Times a Joseph Stiglitz su The Guardian a Rajan su Project Syndicate – ma sull’onda del post-Occupy Wall Street il tema è diventato il più dibattuto degli ultimi due anni.
Circa due mesi fa il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, in un discorso a The Arc, un centro educativo di Washington D.C, ha sottolineato «come il compito di questa generazione sia quello di estirpare le diseguaglianze». Sulla stessa lunghezza d’onda il neo eletto sindaco di New York Bill de Blasio che diventato primo cittadino della più importante città del mondo il primo gennaio scorso ha definito la diseguaglianza «la questione centrale del nostro tempo». E non sono soltanto i politici a esprimersi sul tema. Come ricorda spesso nei suoi interventi l’economista e premio Nobel Amartya Sen, «l’onere della prova è di chi ritiene che la disuguaglianza sia preferibile all’uguaglianza, non l’opposto». Ma nonostante quella che appare un’idea esente da critiche, l’eguaglianza, se non definita in maniera specifica, rimane un concetto vago e facile preda di una vuota retorica.
Un esempio può aiutare a fare chiarezza sulle difficoltà intorno all’idea. Prendiamo Francesco, un insegnante convinto della superiorità morale dell’eguaglianza sull’ineguaglianza e assumiamo che voglia applicare quello che ritiene un principio etico al suo insegnamento. Quali sono le sue opzioni?
La prima opzione, forse la più intuitiva, è quella di trattare tutti gli studenti nella stessa maniera. A ogni alunno Francesco dedicherà la stessa quantità di tempo indipendentemente da colore della pelle, dal cognome che porta o altre caratteristiche discriminatorie. Nonostante la buona volontà, in poche settimane quello che a Francesco era apparso il modo migliore di non differenziare tra i suoi alunni causerà risultati moralmente discutibili. Nel tentativo di trattare gli studenti nella stessa maniera, Francesco si ritrova ad essere involontario responsabile del rallentamento formativo degli studenti più talentuosi, una situazione che, oltre a essere ingiusta nei confronti del singolo alunno, ha la potenzialità di creare un risultato suboptimale per la classe nel suo insieme. Come? Se per esempio Francesco avesse dato più attenzione agli studenti con maggiori capacità avrebbe potuto sperare in un generale miglioramento del rendimento della classe (i meno bravi sarebbero stati ispirati dai più talentuosi) o, altro scenario verosimile, la scelta di favorire lo sviluppo degli studenti più capaci avrebbe nel lungo periodo creato un surplus (economico) superiore al costo di lasciare gli studenti meno bravi indietro. Per esempio se Sara, studentessa dotata in matematiche, fosse stata seguita dal professore con maggior attenzione avrebbe potuto trovare la sicurezza di iscriversi a ingegneria, laurearsi e sviluppare algoritmi innovativi. Tuttavia il ritmo seguito da Francesco volto a mantenere l’eguaglianza tra gli studenti ha impedito a Sara di scoprire il suo talento e di conseguenza alla società di potersi avvantaggiare dei benefici indiretti (maggiore crescita economica, possibilità di creazione di posti di lavoro) che avere un ingegnere qualificato comporta.
Scartato questo primo approccio Francesco ha una seconda opzione: realizzato il danno potenziale che avrebbe potuto recare a Sara, decide di assegnare il suo tempo come professore in base al talento degli studenti. Utilizzando questo approccio Francesco ha la speranza di essere in grado di creare il maggior surplus possibile a beneficio sia della classe sia, in un secondo momento, della società. Queste nuove speranze avranno tuttavia vita breve. Nonostante appaia equo per la classe presa nel suo insieme (alla fine stanno tutti meglio perché anche i meno bravi beneficiano delle conquiste dei migliori) nel lungo periodo le diseguaglianze tra chi ha talento e chi invece non ne ha si accentueranno in una maniera che smetterà presto di essere moralmente accettabile. Non soltanto. Oltre a ritenere questo risultato ingiusto, Francesco realizza che Sara non ha alcun merito rispetto ad un talento ottenuto per puro caso.
Scartata anche questa opzione Francesco realizza di averne una terza: invece di trattare tutti allo stesso modo o dare più attenzione ai più talentuosi, decide di suddividere il suo tempo in base all’impegno mostrato dagli studenti. In base a questo nuovo principio i risultati degli studenti saranno meno importanti dell’impegno mostrato. Francesco è così convinto di poter evitare le situazioni di ingiustizia create dal primo e dal secondo approccio. Nelle settimane successive alla decisione Francesco comincia però a conoscere meglio i suoi studenti. Scopre per esempio che i genitori di Matilde sono entrambi avvocati, che il martedì e il giovedì l’allieva va a lezione di pianoforte e il fine settimana incontra un tutore con il quale rivede i compiti. Al contrario Giorgio viene da una situazione economicamente meno stabile. La madre è disoccupata e il padre fa il doppio turno al bar e, al contrario di Matilde, Giorgio non può avvantaggiarsi né di lezioni di pianoforte né di un tutore personale. Francesco inizia a capire che neanche questo terzo approccio garantisce il livello di eguaglianza che vorrebbe: anche l’impegno dello studente appare legato a fattori esogeni fuori dal diretto controllo dell’allievo e discriminare secondo questa variabile sarebbe dunque ingiusto.
A questo punto Francesco realizza che nessuna delle sue tre idee – che pure partono dall’intento di assicurare la maggiore eguaglianza possibile tra gli studenti – riesce ad ottenere lo scopo prefissato. I sopraelencati problemi riscontrati dal professore in classe sono in piccolo gli stessi dei politici (e dei commentatori) che parlano di voler creare maggiore eguaglianza nella società in cui viviamo. Quanto presentato non è un argomento contro una società più uguale, ma un esempio per ricordare che entrando nei dettagli, quella che pare una verità scontata si scopre una realtà complessa in cui ogni versione di uguaglianza comporta innumerevoli problemi. Perché quando parliamo di maggiore eguaglianza dobbiamo chiederci se per ottenerla siamo disposti ad accettare un calo del Pil? E ancora: sa un lato l’idea di una società fondata sulla meritocrazia sembra un concetto irrinunciabile, dall’altra è necessario ammettere che questa inevitabilmente crea ineguaglianza e che dunque, proprio come nel secondo tentativo di Francesco, queste due concezioni di società non possono co-esistere pienamente allo stesso tempo. Quando diciamo di volere una società in cui tutti sono più uguali siamo disponibili a rinunciare ad una parte di meritocrazia per ottenerla? Difficile rispondere. Le domande sono molte e le risposte molto più complesse dell’immagine idealizzata che abbiamo di una società dove vige maggiore eguaglianza.