Nel 2012, secondo il XIX Rapporto Ismu sulle migrazioni, gli italiani emigrati all’estero sono stati 68mila, contro i 50mila del 2011 e i 34mila del 2002. Non sappiamo se questi 68mila italiani abbiano scelto la mobilità all’estero come manifestazione di disagio nei confronti di un mercato del lavoro e di un sistema sociale che non li valorizzano più, o come opportunità all’interno di un mercato sempre più globale. Per capirlo, occorre guardare sia ai flussi in uscita sia a quelli in entrata.
Nel corso degli ultimi decenni, i primi a emigrare dall’Italia sono stati ricercatori e professionisti, poi in concomitanza con la crisi hanno cominciato a emigrare anche individui meno istruiti e meno giovani. Le destinazioni preferite dagli emigranti italiani nel 2011 sono state: Francia, Germania, Svizzera e Regno Unito, ma anche Stati Uniti, Brasile e Argentina.
Al flusso di italiani in uscita corrisponde un flusso di stranieri in entrata. Il saldo tra i due flussi è infatti positivo da molti anni, nonostante la crescita dei flussi in uscita e la diminuzione di quelli in entrata a seguito della stagnazione economica del nostro paese.
Per quanto riguarda i flussi in ingresso nel 2011, le nazionalità in testa alla classifica sono state quelle romena, albanese, marocchina, cinese e ucraina. Tuttavia, le proiezioni Ismu mostrano che nei prossimi decenni la composizione etnica della popolazione immigrata si modificherà in maniera sostanziale. In particolare, aumenterà il numero di indiani, pakistani, senegalesi ed egiziani, contribuendo a rendere più variegata la popolazione straniera sul nostro territorio.
I dati mostrano alcuni chiari campanelli d’allarme rispetto all’effettiva integrazione degli stranieri nel nostro mercato del lavoro e nel sistema di welfare. Sebbene in Italia il numero di occupati stranieri sia in costante aumento, è in crescita anche il loro tasso di disoccupazione, perché solo una piccola parte degli stranieri di nuova immigrazione trova lavoro e molti di quelli già sul territorio lo perdono. Se uno dei pochi accenni positivi nel dibattito italiano in tema d’immigrazione è sempre stata la necessità di attrarre giovani lavoratori stranieri per finanziare il nostro sistema pensionistico, le proiezioni indicano che questo sarà sempre meno il caso, perché la percentuale di persone che diventano anziane a seguito di migrazioni pregresse è destinata ad aumentare più nel nostro Paese che altrove (si veda il grafico).
Non possiamo aspettarci che la sola immigrazione ci tolga le castagne dal fuoco rispetto ai problemi socio-economici creati da una società che invecchia (e che perde molti giovani in fuga verso l’estero). Per due motivi. Primo, perché si sta producendo una progressiva convergenza dei comportamenti riproduttivi degli immigrati con quelli degli italiani. Secondo, perché la percentuale di immigrazioni temporanee (che di solito riguardano lavoratori giovani destinati a tornare nel loro Paese) è in costante diminuzione in Italia.
Che fare, allora? L’Ismu propone alcuni tasselli per nuove politiche su questi temi. Primo: bilanciare meglio il contributo dello Stato nelle diverse fasi del ciclo di vita degli individui. Per esempio, piuttosto che temere l’emigrazione dei giovani italiani, perché non stimolarla in modo da far compartecipare anche altri Stati al costo della loro formazione? In altre parole, perché non indurli a tornare (anche attraverso misure incentivanti) solo dopo che hanno fatto anche un po’ di esperienze formative e lavorative all’estero?
Secondo, piuttosto che stigmatizzare l’immigrazione, perché non cogliere l’opportunità di valorizzare i giovani laureati di altre nazionalità? Perché non facilitare dal punto di vista burocratico il riconoscimento del titolo di studio e far sì che anche i lavoratori stranieri possano ambire a percorsi lavorativi qualificati? Per esempio, con l’introduzione di politiche migratorie “a punti”, che prevedono che ogni candidato migrante venga valutato attribuendo un punteggio alle caratteristiche ritenute essenziali per lo sviluppo dell’Italia (livello d’istruzione, esperienza lavorativa, competenze linguistiche) e, nello stesso tempo, ritenute utili per favorirne l’inserimento nel nostro tessuto sociale.