Euro si, Euro no. Solo un lustro fa era inimmaginabile un dibattito di questo tipo nel nostro paese. I vagiti della crisi erano già percepibili, ma la moneta unica era ancora considerata come una «conquista», il segno più tangibile del nostro status di potenza europea, di paese «rispettabile».
Oggi tutto è cambiato, l’Europa non è più il «sogno» di cui hanno vagheggiato per decenni le classi dirigenti del nostro paese e, per induzione, i cittadini, ma un campo di battaglia dove si registrano vittorie e sconfitte, primazie e soccombenze, veri e propri disastri economici e sociali. A distanza di vent’anni dal Trattato di Maastricht espressioni come «sviluppo armonioso ed equilibrato delle attività economiche nell’insieme della Comunità », «progresso economico e sociale equilibrato e sostenibile» oppure « creazione di un’unione sempre più stretta tra i popoli dell’Europa, in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini», suscitano un misto di rabbia e frustrazione, la sensazione netta che si sia in presenza di un tradimento delle aspettative riposte nel processo di integrazione. Sarà anche per questo che nel nostro paese i partiti ed i movimenti più o meno antieuropeisti, tutti insieme, potrebbero superare alle prossime elezioni europee il 50 per cento.
In Europa oggi ci sono i paesi «virtuosi» e i paesi PIIGS, sciagurati, dei quali noi facciamo parte, insieme a Portogallo, Irlanda, Spagna e Grecia. Crisi e rigore stringono a tenaglia la maggior parte dei paesi dell’Eurozona. L’Euro c’entra qualcosa con tutto questo? Prendiamo il caso italiano e facciamo qualche passo indietro. L’Euro entra in vigore come unità di conto il 1° gennaio 1999, ma la sua immissione in circolazione avviene tre anni dopo, il 1° gennaio 2002. Il nostro paese aveva già alle spalle la stagione dell’ingresso (1979), della fuoriuscita (1992) e del rientro nello Sme (1996), durante la quale le alterne vicende della sua bilancia commerciale e del suo prodotto lordo dipesero anche dal diverso regime di cambio della sua divisa nazionale.
Partiamo dalla prima. L’ultimo anno in cui si registra un saldo positivo delle partite correnti è il 2001, con 3,4 miliardi di attivo. Dall’anno successivo, coincidente con l’immissione in circolazione della moneta unica, inizia la discesa, che si protrarrà fino ai primi mesi del 2013 e costerà al nostro paese quasi 400 miliardi di Euro. L’Italia, da paese creditore, diventa un paese debitore, con una posizione finanziaria netta sull’estero, cioè lo stock di tutti i debiti netti verso l’estero, non solo quello pubblico ma anche quelli privati, pari al 23,8% del Pil (Primo trimestre 2013).
Andamento bilancia commerciale italiana dall’ingresso nell’Euro
(Fonte: Istat)
Nello stesso periodo la Germania ha fatto il percorso inverso: è passata dal deficit al surplus della bilancia commerciale, accumulando attivi per circa 1700 miliardi di Euro. Si dirà: ma la Germania ha fatto le «riforme» e noi no. Si, ma pur volendo sorvolare su una serie di violazioni dei vincoli europei che hanno visto protagonisti i tedeschi in questi anni per aumentare la loro competitività, su una cosa dobbiamo essere chiari: non si può essere tutti esportatori o tutti importatori in Europa, tutti creditori o tutti debitori. Se tutti i paesi dell’Eurozona avessero simultaneamente svalutato in termini reali, attraverso politiche deflattive e di riduzione della quota salari sul prodotto (Ricordate le riforme Hartz?) 1, come ha fatto la Germania tra il 2003 e il 2006, il marchingegno europeo sarebbe saltato in aria: nella guerra mercantilista c’è sempre chi vince e chi perde, e, per il momento, ha vinto la Germania. Per il momento, però: la crisi dei paesi Piigs sta indebolendo l’export tedesco (Nemesi?) e per il futuro ogni prospettiva rimane aperta. Ma questa è un’altra storia.
Più complicata, ovviamente, è la questione relativamente all’andamento del Pil. Anche in questo caso, tuttavia, si può dare una dimostrazione dei vantaggi che la flessibilità del cambio può offrire nei momenti di difficoltà, come insegna la vicenda della svalutazione della Lira nel 1992. Certo è che a fronte di una crisi globale come quella scoppiata nel 2007-2008, sia la rigidità del cambio, sia i vincoli restrittivi imposti dal Patto di stabilità, hanno finito per aggravare la situazione, come tutti i dati macroeconomici ormai eloquentemente dimostrano. Si tratta di fatti, inoppugnabili, non di congetture.
Andamento Pil Italiano e Ue 2000-2013
(Fonte: Istat)
Da queste prime considerazioni possiamo ricavare che: a) l’Euro ha inciso negativamente sulla nostra capacità competitiva; b) i vincoli del Patto di stabilità posti a presidio della moneta unica hanno aggravato anziché mitigare gli effetti della crisi.
Dicevamo più indietro del ritorno in attivo della bilancia commerciale nei primi mesi del 2013. Un dato che apparentemente smentirebbe quanto detto finora. Cosa è successo? Forse che negli ultimi mesi sono volate magicamente le nostre esportazioni? No, è solo che si sono drasticamente ridotti i consumi. Dando un’occhiata ai dati forniti da Bankitalia (Ottobre 2013)2, emerge chiaramente che il saldo positivo delle partite correnti, più che da una crescita rilevante delle esportazioni, è determinato dal calo delle importazioni. E ciò per effetto del crollo della domanda interna. Un dato tanto più evidente se si leggono i numeri in maniera disaggregata: è il saldo relativo alle merci ed ai servizi che fa chiudere col segno positivo, perché quello relativo a redditi e trasferimenti rimane col segno negativo.
Questo ritorno in attivo della bilancia commerciale, in breve, non ci fa tornare a sorridere, perché nasconde più insidie di quanto si possa immaginare. E’ assolutamente inutile ogni sforzo di ottimismo di fronte a questi numeri, se dietro di essi c’è la povertà crescente delle famiglie italiane, i picchi di disoccupazione che conosciamo, la perdita di potere d’acquisto di strati sempre più larghi della popolazione. Si tratta, a ben vedere, di un’operazione di aggiustamento dei nostri conti con l’estero il cui costo è stato interamente scaricato sul groppone dei cittadini, dei lavoratori e di quel che resta del ceto medio. È l’austerity, per essere più sbrigativi.
Anche qui, c’entra qualcosa l’Euro? Beh, non c’è bisogno di essere economisti per dare una risposta affermativa. E’ l’intera costruzione dell’Europa monetaria ad essere imperniata sull’ideologia rigorista, dalla quale discendono il profilo della Bce, i parametri del trattato istitutivo dell’Unione e tutti i vincoli del Patto di stabilità, dal Trattato di Amsterdam (1997) fino ai regolamenti più recenti come il Two pack ed il Six pack.
Una visione della prospettiva di integrazione europea fondata sulla demonizzazione del debito pubblico e dell’inflazione, sull’ossessione del bilancio in pareggio. Tre elementi che combinati tra di loro hanno avuto dallo scoppio della crisi un effetto pro-ciclico, accentuando l’andamento dell’economia verso il basso. Che fare allora? La crisi è crisi di domanda e sulla domanda bisogna agire, con più spesa pubblica. Si dirà: ma questa strada non è percorribile allo stato attuale, rischieremmo una nuova procedura di infrazione per deficit eccessivo. Delle due l’una, allora: o si investe per stimolare la crescita, i consumi e l’occupazione o si calibrano le politiche di bilancio sull’obiettivo del mantenimento del deficit sotto il 3% del Pil, con la prospettiva del quasi – pareggio a medio termine. E se l’Europa si dimostrasse sorda a questa esigenza il nostro paese avrebbe il dovere di forzare la mano 3, attraverso iniziative che gli consentano di stimolare adeguatamente, qui ed ora, la propria economia, rilanciando la domanda interna e l’occupazione, prima che il disastro diventi irreparabile.
Numero totale occupati/dati destagionalizzati, valori assoluti in milioni di unità (10/2012 – 10/2013)
(Fonte: Istat)
E l’Euro? I fatti si sono già incaricati di dimostrare che l’attuale sistema della moneta «unica» così com’è non funziona, sia perché sono troppo marcate le differenze tra i paesi che l’hanno adottata ed inconciliabili i loro interessi (Si può parlare per l’Europa di Optimum Currency Area4?), sia perché i paesi dell’Eurozona hanno perso del tutto la prerogativa di usare la leva monetaria per stimolare l’economia, agendo efficacemente e tempestivamente in funzione anticiclica.
C’è chi dice che per superare i problemi attuali ci vorrebbe un surplus di integrazione – politica, fiscale -, come se, attraverso una sorta di nuovo dispotismo illuminato, lo stesso che peraltro ha partorito i trattati di Maastricht e quelli successivi, certi processi si potessero determinare a tavolino, in camera sterile (Riuscite ad immaginare un sistema fiscale identico in Germania e Lettonia o in Francia e Slovenia?). Invero sarebbe il caso di ragionare su un’ipotesi di exit strategy5dall’Euro, che coinvolga l’Eurozona nel suo insieme. Tutti fuori, in breve, ma non un «liberi tutti» senza immaginare un’alternativa plausibile. Non c’è bisogno di parafrasare i sacerdoti del tempio dell’Euro, che mettono in guardia dall’inferno che si spalancherebbe in caso di abbandono della moneta unica, per immaginare che una rottura incontrollata del sistema potrebbe avere ripercussioni infelici su alcune economie, almeno per una prima fase.
Dunque? Un’ipotesi potrebbe essere quella di trasformare l’Euro in una sorta di «collante» delle monete nazionali, per regolare gli scambi ed equilibrare il mercato europeo, con alcuni vincoli non draconiani per gli stati membri, che, tuttavia, pur cedendo una quota di sovranità, recupererebbero la loro fondamentale prerogativa di battere moneta, garantire il proprio debito sovrano, usare la leva monetaria per regolare il mercato interno e stimolare, in caso di bisogno, l’economia. D’altronde la prova che un superamento «controllato» dell’Euro non costituirebbe una catastrofe in sé è data dal fatto che l’attuale modello di «unità europea» già si regge sulla differenza tra chi l’Euro ce l’ha e chi non ce l’ha, pur avendo accettato di soggiacere ad alcuni vincoli comuni in quanto membri del consesso Ue.
Ipotesi da approfondire, evidentemente, ma intanto è bene che di queste cose si discuta.
In base ai dati comunicati da Eurostatnel dicembre 2012 laGermania risulta il Paese occidentale con la percentuale maggiore di lavoratori a basso salario (22,2%), rispetto alle medie di Paesi come Francia (6,1%) o quelli scandinavi (tra il 2,5% e il 7,7%), a fronte di una media dell’Eurozona pari al 14,8 per cento
Banca d’Italia, La bilancia dei pagamenti dell’Italia in ottobre 2013, 18 dicembre ’13
Un’interessante proposta, formulata dal Prof. Riccardo Realfonzo (Università del Sannio), è quella di utilizzare parte dell’avanzo primario per politiche anticicliche ( R. Realfonzo, Oltre il rigore. Ecco come investire l’avanzo primario nella crescita, Il Sole 24 Ore, 13 giugno 2013)
Area Valutaria Ottimale (AVO)
Luigi Pandolfi, Europa da sogno ad incubo, Economia e Politica, 9 settembre 2013