La lotta al cambiamento climatico? In tempi di crisi meglio non esagerare. A voler semplificare, si potrebbe sintetizzare così la posizione che sta assumendo la Commissione europea, che il prossimo 22 gennaio dovrebbe presentare le proposte per gli obiettivi energetici per il 2030. Ancora non c’è niente di ufficiale, ma le voci che trapelano da Palazzo Berlaymont non sono a dire il vero molto rassicuranti, come del resto sempre più isolata appare, in seno al collegio, il commissario al Clima Connie Hedegaard, messa all’angolo soprattutto dai colleghi all’Energia, Günther Oettinger, e da quello all’Industria, Antonio Tajani. Il tutto con la potente pressione della lobby industriale e della Gran Bretagna.
Risultato: mentre nel 2008 – alla vigilia dello scoppio della crisi Lehman – l’Ue si era lanciata in ambiziosi obiettivi (ridurre entro il 2020, rispetto ai livelli del 1990, del 20% le emissioni di CO2, portare al 20% la quota di rinnovabili nel mix energetico e migliorare del 20% l’efficienza energetica), il 2014 si accinge a vedere ben più modesti obiettivi. In un primo tempo, Bruxelles sembrava orientata ad almeno due target per il 2030: il 40% (sempre rispetto al 1990) di riduzione di CO2 e il 30% di rinnovabili. Obiettivi, a dire il vero, non difficili da conseguire, considerando che, al 2012, in media nell’Ue la quota di riduzione di CO2 per il 2020 è già praticamente raggiunta, con le rinnovabili siamo al 14,4 per cento.
Il Parlamento Europeo, solo pochi giorni, si è espresso per tre valori vincolanti per il 2030: 40% per il CO2, 30% per le rinnovabili, 40% per l’efficienza energetica. Alla Commissione siamo ben lontani. Secondo varie indiscrezioni, il commissario Oettinger vorrebbe massimo il 35% per la riduzione di CO2, e, d’intesa con Tajani ma anche, a quanto pare, con lo stesso presidente José Manuel Barroso, vorrebbe evitare obiettivi vincolanti per le rinnovabili: si parla di obiettivi “volontari” compresi tra il 24 e il 27 per cento. Quanto all’efficienza energetica, non se ne sente più parlare.
Oettinger ha dalla sua buona parte dell’industria. Non a caso solo pochi giorni fa Emma Marcegaglia, passata dalla guida di Confindustria a quella di BusinessEurope, la federazione delle Confindustrie degli stati membri Ue, ha scritto una lettera a Barroso che parla chiaro: la Commissione «garantisca che il suo pacchetto energetico sia pienamente compatibile con l’imperativa esigenza di rafforzare le nostre industrie e di ripristinare l’Europa come luogo di investimento industriale». BusinessEurope chiede che «l’Ue abbandoni i tre obiettivi sovrapposti per un approccio singolo di riduzione della CO2 entro il 2030». Riduzione, fa capire Marcegaglia, che non deve essere troppo “ambiziosa”, ma, recita la missiva, «deve esser fissata con grande cautela». Si parla di «realismo» e si avverte che «gli obiettivi unilaterali di riduzione di emissione entro il 2030 (il 40% inizialmente ipotizzato, ndr) previsti dalla Commissione porrebbero ancora una volta l’Ue come un avamposto isolato che continua ad aumentare i propri livelli di ambizione mentre non si sono avuti sforzi comparabili da parte dei nostri principali concorrenti (leggi anzitutto Cina e Usa, ndr)».
L’idea di un solo obiettivo di CO2 è molto caro anzitutto a Londra. «Il nostro obiettivo – ha spiegato l’eurodeputato liberale britannico Chris Davis – dovrebbe essere di ridurre le emissioni di anidride carbonica al costo più basso, in modo che le nostre industrie possano essere competitive e i consumatori possano pagare il meno possibile le bollette energetiche». E «il modo più appropriato per tagliare le emissioni varia da Paese a Paese».
Certo, Davis tocca un punto reale: gli alti costi energetici dell’Europa, cresciuti del 35% tra il 2005 e il 2012 mentre nello stesso periodo (grazie anche al gas di scisto) sono crollati del 66% negli Usa. È però evidente che togliere qualsiasi vincolo per le rinnovabili rischia di essere un pesante colpo per il settore, a tutto vantaggio della lobby del nucleare. Il problema per la Commissione è che, se da un lato Londra preme, dall’altro c’è la Germania che vorrebbe mantenere il vincolo anche per questo obiettivo. Non è un caso: la Repubblica Federale è tra i pionieri del settore, e ha puntato proprio su eolico e solare per gestire l’annunciata uscita dal nucleare del paese (nel 2012 le rinnovabili in Germania hanno toccato il 22% del mix complessivo, scavalcando il nucleare, sceso al 16%). Così Berlino, insieme però ad altri sette paesi (Italia, Francia, Irlanda, Portogallo, Danimarca, Austria e Belgio) a dicembre ha scritto alla Commissione una pressante lettera. «Un obiettivo (vincolante, ndr) per le rinnovabili – si legge – è cruciale per fornire la certezza che può assicurare investimenti a costi ragionevoli nei sistemi energetici, che rafforzeranno il mercato interno dell’energia». Dalla parte degli otto sono non solo, ovviamente, associazioni ambientaliste come Greenpeace, ma anche grosse industrie coinvolte, come la tedesca E.on, la francese Alstom o la danese Vestas.
L’aria che tira a Bruxelles è che alla fine passerà il solo obiettivo vincolante (e probabilmente ridotto) per il CO2, come vogliono Londra e BusinessEurope. Barroso è ormai a fine mandato (la Commissione scade a novembre prossimo) ed è da tempo ai ferri corti con Berlino. Oltretutto, il calcolo del portoghese appare relativamente semplice: visto che al momento la preoccupazione di non compromettere la ripresa è più popolare della tutela del clima, tanto vale puntare sulla prima. Non certo un buon segnale in vista del summit sul Clima in programma a New York per settembre prossimo.