Gli errori di Bergoglio quando parla di fame nel mondo

Controcanto a Papa Francesco

*Scelto per voi da Noise From Amerika

Che questo Papa che tutti dicono rivoluzionario porti un po’ di logica economica al pensiero della Chiesa. 

Sento solo parlar bene di Papa Francesco, anche da alcuni che so fortemente anti-clericali. Io sono sempre dubbioso di questi tempi e su questi temi, ma non è certo di questo che voglio parlare che non importa a nessuno. Sperando di avere torto, offro modestamente un piccolissimo contributo alla rivoluzione di Papa Francesco, senza nemmeno aspirare a una telefonata (battutaccia pure vecchia, lo so, non ho resistito). 

Visto che apparentemente il Papa si accinge a ripulire lo Ior, opera grandemente meritoria, perché non ripulire anche il pensiero della Chiesa dalle incrostazioni retoriche di secoli? A questo proposito, si discute molto in questi giorni del fatto che l’enciclica Evangelii Gaudium contenga affermazioni discutibili, tipo che l’impoverimento di tanta gente in tutto il mondo sia il risultato di “un’ideologia che difende l’assoluta autonomia del mercato e della speculazione finanziaria”. Vari hanno in un modo o nell’altro, direttamente o indirettamente, criticato l’enciclica per questo, dal Financial Times al Sole24Ore (l’articolo di Carlo Stagnaro non ha l’enciclica a riferimento esplicito, ma potrebbe averla).

Io non aspiro a tanto. Vorrei discutere invece solo di una di quelle incrostazioni. Intanto perché mi sta a cuore e poi perché mi pare sia abbastanza centrale. In particolare, ho sentito il Papa riprendere recentemente un’argomentazione di questo tipo (parole mie): 

c’è abbastanza cibo per tutti sulla terra e quindi nessuno dovrebbe aver fame

Ovviamente questa è argomentazione abbastanza comune, da parte di questo Papa, di altri prima di lui, così come da parte di molti altri alti prelati, pensatori comunisti e non, e tante altre persone di buona volontà. 

L’argomentazione, nella mia interpretazione (ripeto le parole sono mie, ma cerco di rappresentarla correttamente), consiste in due affermazioni, I) c’è abbastanza cibo per tutti sulla terra e II) nessuno dovrebbe aver fame, legate in un rapporto di causa-effetto dal quindi. La prima è una affermazione fattuale e la seconda una aspirazione morale. Entrambe le affermazioni sono corrette. Riguardo alla prima, la Fao stima che nel mondo oggi si producano almeno 2,720 kilocalorie (kcal) per persona al giorno, ma che circa 870 milioni di persona vivano in situazione di malnutrizione cronica. Naturalmente le stime sono discutibili (e io non sono un esperto), ma non ho ragione di pensare che non rappresentino una ragionevole approssimazione. Oltretutto se la produzione agricola fosse organizzata in modo da massimizzare le calorie invece che i profitti si potrebbe senza dubbio produrne molte di più di calorie allo stato presente della tecnologia. Il sistema più semplice di aumentare la produzione di calorie è diventare tutti vegetariani: la produzione di una caloria di carne richiede da 4 a 8 calorie di cereali per nutrire la bestia, ma i consumatori vogliono carne, non (solo) pasta o pane o tortillas. Riguardo alla seconda affermazione, non conosco nessuno in disaccordo con l’obiettivo di eliminare la fame nel mondo… e sì che di amici tra i peggiori turbo-liberisti ne ho tanti.

Se entrambe le affermazioni sono corrette, tutta la questione sta nel quindi. Implicitamente, con quel quindi, si argomenta che la fame sia il risultato della distribuzione ineguale del cibo, del fatto che molti hanno accesso a più calorie di quante non siano loro necessarie per vivere. Anche questo è vero, cioè è vero che molti hanno accesso a più calorie di quante non siano loro necessarie per vivere: semplice implicazione aritmetica dell’esistenza di cibo sufficiente e allo stesso tempo di molte persone malnutrite. Ma ciò non significa che la fame sia il risultato della distribuzione ineguale del cibo.

È qui che entra in gioco la logica economica. L’aritmetica implica solo che a parità di produzione mondiale di cibo il problema è un problema di distribuzione. Ma la produzione di cibo e la distribuzione non sono indipendenti l’una dall’altra. È possibile che l’effetto di richiedere una più equa distribuzione sia quello di ridurne la produzione. Questa semplice e ovvia possibilità rende il quindi semplicemente errato: l’argomentazione così come l’ho presentata è un non sequitur logico. (I nostri lettori più fedeli riconosceranno nell’argomentazione dei tratti del modello superfisso).

In realtà la situazione è anche un po’ più grave, nel senso che non solo l’argomentazione è errata logicamente, ma l’analisi economica tende a suggerirci che il fatto che la redistribuzione possa portare a una diminuzione della produzione sia più di una semplice possibilità logica, che possa avverarsi con alta probabilità. Innanzitutto, la produzione agricola oggi (e le innovazioni tecnologiche passate che l’hanno resa possibile) è essenzialmente il frutto di un sistema di mercato, per quanto molto regolato. Nei Paesi avanzati, e in particolare nell’Unione europea, la regolazione è soprattutto a favore dei produttori, in quelli più arretrati a favore dei consumatori urbani a danno dei produttori – i contadini poveri. Ma se la produzione agricola segue la logica del profitto, si produce per chi ha risorse e non per chi non ne ha. Redistribuire significa produrre per chi non ha risorse, la domanda (pagante) crolla e lo stesso fa l’offerta. Certo, in principio si potrebbe lasciare la produzione agricola e la distribuzione delle risorse in mano a meccanismi non di mercato. Ma gli esperimenti sociali in questa direzione hanno avuto effetti catastrofici; mi riferisco alle carestie che i piani di ispirazione comunista hanno generato. Non sto facendo un discorso ideologico, né sto semplicemente estrapolando da alcuni pur notevoli avvenimenti storici: ci sono ragioni serie di analisi economica per cui questi piani non hanno funzionato, in generale, e hanno occasionalmente generato drammatiche carestie, appunto: dalla questione della dispersione dell’informazione a quella della carenza di incentivi per i produttori. Non sono ordini di problemi questi che si risolvano con buona volontà ed elevate aspirazioni morali. Purtroppo: la storia e l’analisi economica ci insegnano che la pianificazione centralizzata della produzione agricola porterebbe con elevata probabilità ad una notevole diminuzione della produzione totale di cibo ed a una maggiore diseguaglianza nella sua distribuzione. 

In buona sostanza, le calorie sono ‘sufficienti’ grazie alla crescita della produzione che negli ultimi 70-80 anni riflette quasi solo il progresso tecnico. La fame si sconfigge con sistemi economici che continuino questo progresso, non (solo, né in misura rilevante) redistribuendo una fissa quantità di cibo, che fissa non è.  Tutto questo non significa che l’aspirazione a eradicare la fame del mondo tale debba rimanere, un’aspirazione etica, e nulla possa essere fatto. Assolutamente no. Innanzitutto potrebbe anche essere che la riduzione della produzione agricola dovuta alla redistribuzione non sia quantitativamente così rilevante da lasciare una parte della popolazione mondiale senza calorie sufficienti ad una appropriata nutrizione (come dicevo, mi pare poco probabile che questo avvenga a seguito di una pianificazione centralizzata della produzione). Ma soprattutto, e questo è molto importante, ho implicitamente assunto che la redistribuzione del cibo avvenga ex-post, dopo che esso sia stato prodotto (perché così è costruito l’argomento che sto discutendo) ma vi sono altre forme di redistribuzione che in alcune condizioni possono addirittura aumentare anziché diminuire la produzione agricole. Mi riferisco soprattutto alla redistribuzione della terra coltivabile. La dimensione ottimale, dal punto di vista dell’efficienza produttiva, delle industrie agrarie cambia col tempo, la geografia, il bene che si produce. La eliminazione dei latifondi in molte epoche storiche e luoghi geografici è stato un meccanismo estremamente positivo, che ha generato capacità produttiva assieme a maggiore eguaglianza. Ma Giovanni Federico, che è un esperto (vedi il libro citato sotto) mi fa notare che il caso più clamoroso di inefficienza delle grandi aziende non sono i latifondi nelle società capitalistiche, ma le aziende collettive nei regimi socialisti. Nel 1979  Deng Xiao-Ping ha dato la terra in affitto di lunga scadenza ai contadini cinesi (household responsability system) e la produttività totale dei fattori  in agricoltura è cresciuta del 3-8% all’anno per dieci anni. Alcuni lavori di Abjiit Banerjee Lakshmi Iyer (questo, ad esempio) mi pare suggeriscano che in alcune parti dell’India la riforma agraria dopo la colonizzazione abbia avuto effetti positivi di notevole entità. 

Concludo con tre punti. Il primo consiste nel ribadire che si può e si deve far meglio e di più per ridurre la fame nel mondo, assolutamente. Però questo è lavoro duro e faticoso. Non è solo lavoro duro e faticoso sul campo, lavoro che missioni religiose e organizzazioni non-governative fanno tutti i giorni, e di cui io so poco o nulla. Ma è anche, nel nostro piccolo di minuscoli economisti, lavoro intellettuale duro e faticoso. Semplificare per mezzo di argomentazioni come quella qui discussa, ridurre il tutto ad una questione re-distributiva è semplicistico. Forse è retoricamente efficace ma certo è dannoso perché distoglie dalle questioni vere, che sono spesso questioni molto micro-economiche, di incentivi e rapporti sociali ed economici. La questione degli effetti economici e sociali degli aiuti allo sviluppo, che sono spesso negativi (generano dipendenza, agguerrite lobby di potere e relative guerre, accentramento della ricchezza in chi ha accesso agli aiuti stessi, eccetera eccetera) è fondamentale, e non deve essere persa di vista. Altre questioni riguardano lo spreco delle risorse. Dice Giovanni Federico che molte calorie sono sprecate in un sistema di conservazione e distribuzione dei prodotti inefficiente. Nei Paesi in via di sviluppo le maggiori cause di spreco di calorie sono i roditori e gli altri animali e la difettosa conservazione dei prodotti deperibili. Nei Paesi avanzati le calorie sono sprecate perché i prodotti sono scartati prima della vendita in quanto non perfetti, per esempio frutta e verdura, o sono buttati nella spazzatura dai consumatori o dai negozianti (tutti i prodotti vicino o dopo la scadenza).

Queste sono questioni che gli economisti dello sviluppo conoscono bene ed affrontano con un certo successo, sia da un punto di vista teorico che empirico. Ma sono questioni difficili, ribadisco, da non banalizzare in pure questioni redistributive. A livello macroeconomico, poi, andrebbe fatta una riflessione sul ruolo della regolamentazione del settore agricolo nei Paesi ricchi (Unione Europea ed Usa in primis) e a quali logiche sia sottoposta (non certo a quelle del benessere dei consumatori locali e dei paesi poveri).

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