L’Europa del calcio, a corto di liquidità, sta cercando in svariati modi di raddrizzare i propri bilanci. C’è chi lo fa attraverso laute sponsorizzazioni, approfittando degli interessi energetici di Gazprom nel Vecchio Continente (vedi alla voce Chelsea, Schalke 04 e Zenit San Pietroburgo). C’è chi approda in Borsa (Manchester United) o chi progetta di farlo (Inter). C’è chi prova a metterla sul trading di giocatori e plusvalenze: la lunga trattativa tra Juventus e Inter per lo scambio Vucinic-Guarin ne è un esempio lampante. Ma c’è anche chi, soprattutto tra Portogallo e Spagna, si affida ai fondi d’investimento. Scatenando una battaglia contro Fifa e soprattutto Uefa.
In gergo si chiamano “Third Party Ownership” (Tpo) e indicano un fenomeno in crescita, ovvero quello dei fondi d’investimento che investono nel cartellino di un calciatore, entrando quindi nelle trattative di calciomercato, dalle quali percepiscono una robusta percentuale sui costi dell’operazione. Una modialità che per un club rappresenta prima di tutto un vantaggio: i flussi di denaro provenienti da questi fondi permettono alle società di calcio di non dipendere troppo dai prestiti erogati dalle banche, come spesso accade. Il meccanismo di funzionamento dei Tpo è semplice. I proprietari dei fondi di investimento agiscono come dei veri e propri scout, andando a cercare giovanti calciatori di talento e che possano assicurare una rendita tecnica ed economica. Un’attività che unisce quindi le abilità da gestore alla conoscenza del gioco del calcio: se il giocatore diventa forte, la rendita è assicurata. Con un risparmio anche da parte dei club, dato che l’attività dei fondi fa scendere il costo dell’investimento necessario per assicurarsi un giocatore. Il tutto in favore di minori oneri gli ammortamenti e, di conseguenza, liberando un budget maggiore per compiere altri acquisti. Con un effetto a cascata così riassumibile: più acquisti uguale campionato più competitivo uguale diritti tv più cospicui.
Che il fenomeno sia in aumento lo ha rivelato lo scorso dicembre un report di Kpmg. Secondo la società di consulenza, gli operatori del ramo Tpo hanno investito quote in 1100 calciatori in Europa; mentre in Brasile (area dove ha cominciato a diffondersi il fenomeno) le partecipazioni in giocatori della serie A hanno raggiunto il 90%. Nel dettaglio, le quote degli investitori nei giovani calciatori in Europa hanno raggiunto un valore di 1,1 miliardi di euro. Tradotto: il 5,7% del valore del mercato dei trasferimenti nell’area del Vecchio Continente. In particolare, i Tpo sono diffusi nei Paesi dell’Europa orientale, dove gli investitori hanno in mano il 40% del valore di mercato dei calciatori.
Non solo Est: il fenomeno sta aumentando in Spagna (8% di quote in mano a Tpo), Portogallo (36%) e Olanda (3%). Club come Atletico Madrid e Porto hanno già usato questa pratica, con profitto. Se si guarda soprattutto al bilancio 2011/12 del club portoghese, come evidenza il sito specializzato “Tifosobilanciato.it”, si scopre «che le eccezionali performance in tema di plusvalenze derivanti dalla cessione dei calciatori, derivino oltre che dall’eccelsa attività di scouting, anche dalle ottime relazioni con le cosiddette TPO e con alcune società di agenti, che operano nell’intermediazione relativa alla cessione dei calciatori, a cui vengono attribuite rilevanti commissioni, come nel caso “Gestifute” per le cessioni di James Rodriguez e João Moutinho». I numeri legati alle plusvalenze sono interessanti: il Porto nell’ultimo anno ne ha realizzate per 76 milioni di euro; in totale, 213 milioni di plusvalenze negli ultimi 5 anni.
Quindi le Tpo sono la soluzione per un calcio affogato dai debiti e pressato dal regime del Fair Play Finanziario elaborato dalla Uefa, giusto? Sulla carta sì, ma è lo stesso Governo del calcio europeo a contrastare questa nuova pratica, sebbene non sia stata dichiarata illegale dalla Fifa. Già lo scorso marzo, il segretario generale Uefa Gianni Infantino aveva richiamato tutti all’ordine: «Non c’è posto per le Tpo, prima di tutti per una questione morale: una società terza non può realizzare profitti sulla compravendita di un giocatore, che è prima di tutto un essere umano. E poi è una questione etica: cosa succederebbe, a livello di interessi, se un fondo di investimento gestisse più calciatori di grandi club?». Francia e Inghilterra hanno già bloccato le Tpo, dichiarandole non consentite. Non è un caso che Richard Scudamore, numero uno della Premier League, le abbia definite «pratiche schiaviste».
In Premier ancora si ricordano bene di quanto successo nel 2006, con gli arrivi dal club brasiliano del Corinthians a quello inglese del West Ham di Carlos Tevez e Javier Mascherano. Li portò a Londra l’iraniano Kia Joorabchian, uomo d’affari diciamo controverso (a un certo punto risulterà essere registrato con due date di nascita differenti) che nel 2004 aveva acquistato il Corinthians, inclusi Tevez e Mascherano, attraverso il fondo Media Sports Investments. I due giocatori finirono in maglia Hammers tra multe, inchieste della Federcalcio inglese (i trasferimenti dei due atleti violavano le norme inglesi) e mandati di cattura internazionale per Joorabchian, accusato di riciclaggio. Il faccendiere ricercato pagò 3 milioni di euro al West Ham per non proseguire nella diatriba davanti al Tribunale d’Arbitrato per lo Sport (Tas).
Un pastrocchio finanziario che per certi versi ricorda quello del brasiliano Neymar, acquistato quest’estate dal Barcellona per 57 milioni di euro dal Santos. I soldi versati dall’ormai ex presidente Blaugrana Sandro Rosell sono stati così divisi: il 55% al Santos, il restante 45% ai due fondi d’investimento che erano co-proprietari del cartellino del giocatore. In particolare, il 40% andò al fondo d’investimento Dis, che in Brasile controlla molti assi del calcio, e il 5% alla società Tercera Estrela Investimentos. Peccato che Rosell abbia molto probabilmente pagato il giocatore quasi il doppio, secondo le recenti accuse della stampa iberica.
Ciò nonostante, in Spagna la pensano diversamente dall’Inghilterra. L’omologo iberico di Scudamore, ovvero il capo della Liga Javier Tebas, ha spiegato che «Se c’è un meccanismo che permette ai team di accedere a buoni giocatori bisogna usarlo». Il ragionamento di Tebas è semplice: permettere ai club di accedere ai Tpo per livellare verso l’alto la differenza tecnica con le storiche dominatrici del calcio spagnolo Real Madrid e Barcellona. Il che significa a sua volta avere un campionato più combattuto, con i grandi broadcaster disposti a spendere di più per i diritti tv.
Ma la Uefa, che vuole bilanci sani e squadre capaci di autofinanziarsi attraverso propri settori giovanili e stadi di proprietà, è irremovibile. E, con un comunicato pubblicato lo scorso dicembre sul proprio sito, ha chiarito che «Dal momento che quello della proprietà di terze parti sembra essere un fenomeno globale e dato che la Fifa è responsabile per il funzionamento del sistema di trasferimento internazionale, abbiamo chiesto all’organismo mondiale di prendere le misure necessarie per introdurre un divieto globale».
Toccherà quindi al Governo del calcio mondiale dirimere la questione. Che verrà esaminata dai membri del Comitato Esecutivo durante il prossimo congresso Fifa in programma a giugno a San Paolo, in Brasile. E proprio nel Paese che ospiterà il prossimo Mondiale tremano: i modelli economici delle squadre brasiliane si basano sull’incassare finanziamenti in cambio dei diritti di trasferimenti.