A prima vista, le aste al ribasso sembrano uno straordinario affare. Nate in Svezia nel 2007, queste assegnano il prodotto all’offerta unica (ovvero non offerta da alcun altro utente) più bassa; si stima che i prodotti in vendita – che includono iphone, portatili e perfino automobili – siano comprati a circa lo 0,3% del loro valore di mercato.
Nonostante il loro successo, però, questo tipo di aste hanno suscitato non poche polemiche. Chi le critica dice che siano una variante del gioco d’azzardo e che risultino davvero vantaggiose solo per chi gestisce i servizi e per una piccola cerchia di utenti “accaniti”.
Vincere un’asta al ribasso è infatti essenzialmente un colpo di fortuna e non dipende da alcuna abilità. Una persona può trovarsi a fare numerose offerte senza alcuna certezza di vincere il prodotto – è essenzialmente una lotteria, pur dando l’illusione al giocatore di essere in controllo del risultato finale.
Questo tipo di aste, se accompagnate a “feedback” sullo stato dell’offerta cessano di essere delle semplici lotterie e risultano particolarmente lucrative per il banditore d’asta perché gli offerenti tendono a comportarsi in modo irrazionale. Infatti, ricevendo una indicazione dal sito riguardo allo stato della loro offerta (offerta non unica, offerta unica ma non la più bassa, offerta unica più bassa) gli offerenti si ritrovano spesso intrappolati in cosiddette “guerre di attrito”, in cui sono propensi a continuare a puntare sperando di vincere e recuperare i costi sostenuti. Tali segnali informano il giocatore che alcune o tutte le sue offerte non hanno possibilità di vincita, immediatamente incentivando nuove “puntate”. Proprio grazie all’alto numero di offerte per singola asta, secondo le stime (conservatrici) di Andrea Gallice nel suo recente paper Lowest Unique Bid Auctions with Signals, i profitti di chi vende sono, per ciascuna asta, circa il 441% del prezzo di mercato del prodotto.
Inoltre, Gallice, analizzando i dati di bidster.it, fa una scoperta curiosa: gli utenti tendono a puntare di più su numeri dispari, per la precisione circa il 55,8% delle volte, contro il 44,2% delle puntate sui pari. La preferenza per i numeri dispari ha una spiegazione intuitiva: in un’asta al ribasso gli offerenti vogliono puntare su valori che nessuno ha scelto. Di conseguenza, cercano di puntare su numeri “originali”: i numeri dispari (esclusi quelli che finiscono in 5) e ancora meglio, i numeri primi. Questa propensione a puntare sui dispari è una ulteriore dimostrazione che gli offerenti non si comportano in modo razionale: la frequenza di offerte per valore dovrebbe essere strettamente decrescente man mano che cresce il prezzo di offerta (all’aumentare del prezzo diminuisce per definizione la probabilità di aver fatto l’offerta più bassa), invece nonostante il trend sia decrescente ci sono, appunto, dei “picchi” sui valori dispari.
Proprio queste caratteristiche da gioco d’azzardo delle cosiddette aste al ribasso avevano anche portato, nel 2010, ad una azione della Guardia di Finanza nei confronti di alcuni operatori del settore. Accusati di esercizio abusivo di attività di gioco o scommessa, i loro siti web sono stati oscurati.
Insomma, viste le analisi empiriche che dimostrano l’analogia di tali aste ad alcuni giochi d’azzardo, nonostante il loro indiscutibile appeal le aste al ribasso, a meno di rigide regole di tutela per i consumatori, rischiano di essere semplicemente degli specchietti per le allodole.