Immaginate una persona che suona l’arpa. Ora immaginatene invece una che suona il trombone, o la figura che dirige l’orchestra. Il settore della musica non è immune da stereotipi e, dati alla mano, rispecchia quella tendenza alla segregazione di genere ampiamente studiata per i percorsi universitari.
Tra l’anno accademico 2007/2008 all’a.a. 2011/2012 le iscritte e le diplomate dei conservatori del bel paese sono state circa il 45% del totale. Nel complesso la divergenza tra presenza maschile e femminile è quindi contenuta e non particolarmente rilevante. È però all’interno dei singoli corsi che, così come accade tra le facoltà universitarie, si riscontra una distribuzione molto disomogenea di allievi e allieve. Nella Tabella 1 sono stati selezionati alcuni dei corsi tradizionalmente presenti nei conservatori: guardando la distribuzione delle iscrizioni in base al genere si evidenzia una distinzione tra quelli che potremmo definire “corsi da maschio” e “corsi da femmina”.
I gruppi in cui la presenza femminile rimane molto al di sotto del 50% sono gli ottoni, gli strumenti a percussione, le discipline compositive, improvvisative e direttoriali. Si tratta di quegli strumenti e di quelle attività musicali a cui le donne hanno avuto un accesso tardivo nel corso della storia della musica europea colta (comunemente detta classica), poiché presupponevano competenze (vigore, creatività e autorevolezza) in netto conflitto con lo stereotipo femminile tipico della cultura patriarcale. Per questi settori non esiste dunque una consolidata tradizione femminile cui far riferimento; per questo, anche nell’odierna e libera società occidentale, ad essi le donne si indirizzano meno facilmente, riconfermando la sottorappresentazione che così si autoalimenta.
Svolgendo una piccola ricerca tra le pagine web di dieci tra le più importanti fondazioni lirico-sinfoniche italiane, emerge che la distribuzione delle donne all’interno dei corsi conservatoriali rispecchia quella delle sezioni strumentali delle orchestre prese a campione (dati del 2012-13): esse sono detentrici del monopolio quasi esclusivo sull’arpa; risultano essere distribuite prevalentemente tra gli archi, escluso il contrabbasso, mentre la loro presenza è esigua tra i legni, escluso il flauto; sono infine quasi assenti tra gli ottoni e le percussioni.
Le situazioni dell’ambito formativo e professionale sono dunque sovrapponibili e in rapporto di reciproca influenza per quanto riguarda la distribuzione di presenza femminile, ma il confronto dei singoli dati porta ad un’ulteriore riflessione: a fronte di un’offerta di capitale umano costituita negli ultimi anni, in alcuni casi, per oltre il 50% da donne (vedi Tabella 1), corrisponde un tasso di impiego femminile nelle orchestre prese in esame, arpa esclusa, non superiore al 37% (percentuale relativa ai violini secondi).
Ciò è imputabile al fenomeno della segregazione, per cui le donne sono tutt’oggi tendenzialmente escluse da determinati ambiti lavorativi. Tali ambiti sono quelli che meno si conciliano con quanto è ancora richiesto alle donne secondo una vetusta spartizione di compiti e ruoli all’interno della famiglia e della società.
La professione di orchestrale, o di musicista in generale, è in effetti annoverabile tra quelle che richiedono orari flessibili e frequenti trasferimenti fuori sede, difficilmente conciliabili con le esigenze familiari. È altamente probabile che questo aspetto sia tenuto in conto sia dalle donne stesse, nel momento in cui – pur avendo conseguito il titolo di studio – rinunciano alla carriera di professore d’orchestra, sia dalle commissioni giudicanti, come rileva una ricerca svolta nel 2000 da due economiste statunitensi (Goldin, Rouse; 2000).
Questo quadro suggerisce che anche la situazione nell’ambito formativo musicale sia il risultato di un circolo vizioso che coinvolge su due livelli i retaggi di certi stereotipi di genere: se il passato non lascia in eredità una tradizione femminile per determinate professioni, le donne sono disincentivate a intraprendere il relativo percorso di studio. Si determina in questo modo, in molti casi, un’offerta di capitale umano femminile in partenza numericamente inferiore a quello maschile. Al momento dell’accesso al mondo lavorativo tale minoranza viene ulteriormente ridotta da convenzioni sociali che tengono le donne lontane dalle carriere incompatibili con la cura familiare. Si conferma così la loro sottorappresentazione in determinati settori, che influenzerà le scelte della successiva generazione di donne.