Fabrizio De André è stato tante cose: un personaggio complesso, inquieto e – dicono – per niente facile; è stato un poeta di gran sensibilità, un musicista curioso, vorace e sperimentatore, un fenomenale orchestratore e catalizzatore di talenti (praticamente mai lavorò da solo), un grande traduttore di capolavori altrui, da Suzanne di Leonard Cohen a Les passantes di Georges Brassens, passando per Desolation’s Row di Bob Dylan, per citarne solo tre.
De André è stato un libertario, portatore appassionato di una splendida anarchia umanista, e contemporaneamente un borghese, un ateo, ma anche un convinto credente, sacerdote di una religione che al centro aveva l’Uomo. È stato un grande amante della vita, delle donne, dell’alcool, degli amici, della malinconia. Di lui Francesco De Gregori ha detto una cosa bellissima: «Non ho mai visto Fabrizio affrontare la vita ipocritamente, come non l’ho mai sentito mettere in musica una bugia».
Oggi sono 15 anni che Fabrizio De André è morto. Ma mi verrebbe da scrivere che sono già passati 15 anni, visto che mi sembra sul serio ieri, e che ogni volta che ci penso – a De André intendo – non riesco a pensarlo morto, tutt’altro.
Quell’11 gennaio del 1999 frequentavo ancora il liceo, e visto che non c’era ancora l’ombra di smartphone e di social network fitti di messaggi su quanto sarebbe stato bravo Faber a insegnare la malinconia agli angeli, venni a sapere della sua morte – avvenuta nella notte – soltanto al mio ritorno da scuola. Ero cresciuto con le sua canzoni. Non piansi, non ricordo di averlo fatto, ricordo però una sensazione di vuoto.
Sono passati 15 anni – sono passati già 15 anni – e in tutto questo tempo ho continuato ad ascoltare De André con la stessa ossessività, anche se a fasi alterne. Ora quella sensazione di vuoto la provo per altre cose, e uso metodicamente le sue canzoni per saziare l’inquietudine, una specie di bestiola che ciclicamente, come succede a tutti, mi fa delle improvvisate.
Durante un concerto, nel 1991, spiegando al pubblico le canzoni contenute nell’album Fabrizio De André, che tutti chiamano l’Indiano (fantastico, tra l’altro), De André disse una frase che qua ci sta molto bene: «Non la vorrei fare tanto lunga, anche perché che io sono più bravo a esternare attraverso le canzoni che non attraverso le chiacchiere». Ecco, non la voglio fare tanto lunga neanch’io, quindi vi lascio in compagnia di 10 canzoni, sono le 10 cartucce che mi porto dietro da 15 anni, sono quelle che sparo quando mi insegue l’inquietudine, e quasi sempre il loro lavoro lo fanno bene.
L’ordine è casuale.
Hotel Supramonte, Fabrizio De André (l’Indiano), 1981
Sogno numero due, Storia di un impiegato, 1973
Le passanti, Canzoni, 1974
Giugno ’73, Fabrizio De André Vol.8, 1975
Verranno a chiederti del nostro amore, Storia di un impiegato, 1973
Parlando del naufragio della “London Valour”, Rimini, 1978
Preghiera in gennaio, Fabrizio De André Vol. 1, 1967
Amico Fragile, Fabrizio De André Vol.8, 1975
Sally, Rimini, 1978
Corale, Tutti morimmo a stento, 1968