Renzi vende fumo, sforare il deficit non si può

I miti e la realtà del “Six Pack”

La regola del 3% è “vecchia di 22 anni” e dunque si può “ridiscutere”, basta che il paese sia “forte”. A sentire il leader Pd Matteo Renzi sembra facile, in realtà è un’impresa a dir poco disperata. E già, perché qui non si tratta di un “patto” tra l’Italia e Bruxelles, qualcosa per cui ci si mette a tavolino, si trova un accordo e il gioco è fatto. In gioco ci sono trattati Ue e intergovernativi, dal valore fortemente cogente e trasposti nell’ordinamento italiano (anche in Costituzione) che si possono difficilmente ignorare.

Procediamo per ordine. La regola del 3% del Pil per il deficit (al pari del 60% per il debito pubblico, dunque meno della metà di quello italiano) è ancorata nel Trattato del funzionamento dell’Unione europea, che precisa l’intera procedura per deficit eccessivo (le cifre del 3% e del 60% sono scandite all’articolo 1 del protocollo 12 sulla procedura per i disavanzi eccessivi). Notoriamente, per cambiare il trattato occorre una procedura negoziale difficilissima, e oltretutto l’eventuale intesa finale andrebbe confermata, all’unanimità, da tutti e 28 i parlamenti nazionali (tra cui quelli dei rigoristi, dalla Germania alla Finlandia, dall’Austria all’Olanda). Non basta. Negli anni – per non ripetere quanto accadde nel 2003, quando Francia e Germania bloccarono le procedure per i propri sforamenti – si è andati nella direzione opposta a quella auspicata da Renzi: e cioè non “allentare” il patto (in modo da consentire più facilmente sforamenti), bensì rafforzarlo e renderlo più cogente, aumentando misure di controllo e sanzioni. Una riforma approvata da tutti gli Stati membri, Italia inclusa.

Centrale è il cosiddetto “Six Pack”, in vigore dal 13 dicembre 2011 dopo l’approvazione sia del Consiglio Ue (che rappresenta gli Stati membri), sia del Parlamento Europeo. Si chiama così perché è costituito da cinque regolamenti e una direttiva, ma allude anche – a sottolinearne la “forza” – al nome inglese del muscoloso addome dei palestrati (la famosa “tartaruga”). La nuova normativa ribadisce i tetti del 3% e del 60% e obbliga inoltre al rispetto degli obiettivi di medio-termine (l’obiettivo di riduzione del deficit dei singoli Stati). Obiettivo, ha precisato a luglio il commissario agli Affari economici Olli Rehn, che può essere rinviato solo per gravi ragioni (crisi) o per consentire il cofinanziamento nazionale di progetti finanziati con fondi strutturali Ue, ma comunque restando al di sotto del tetto del 3%, che resta inviolabile. La Commissione, oltretutto, in base a questa normativa ha maggiori poteri anche sul ramo “preventivo” (meno definito nel Patto originario): può emettere raccomandazioni ben prima che sia sforato il famoso tetto, qualora rilevi concreti pericoli che lo Stato in questione possa, in un futuro prossimo, non rispettare il parametro. Peggio ancora, il Six Pack introduce sanzioni economiche per chi non rispetta i parametri, fino allo 0,5% del pil (per l’Italia significherebbe un salasso di 7-8 miliardi di euro).

Non vi basta il Six Pack? In “parallelo”, fuori dall’Ue, l’Italia ha siglato insieme ad altri 24 stati (fuori solo Regno Unito e Repubblica Ceca) a inizio 2012 il famoso “Fiscal Compact” (il cui nome ufficiale è “Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria”) voluto dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. Il trattato ricalca il Six Pack, ma introduce l’obbligo del pareggio di bilancio (in termini strutturali, e cioè al netto dei fattori ciclici e una tantum) pari allo 0,5% del Pil, con meccanismi di correzione automatici salvo per fattori eccezionali. Il Fiscal Compact, peraltro, pur essendo un trattato intergovernativo formalmente fuori dal complesso giuridico Ue, ribadisce i parametri del 3% del Pil per il deficit e del 60% per il debito. Ciliegina sulla torta (decisamente fastidiosa per i proclami renziani): l’Italia a dicembre 2012 ha modificato la propria Costituzione introducendo le regole del Fiscal Compact, con l’obbligo del pareggio di bilancio (0,5%). Se sfora, insomma, il governo non rischia di violare solo le norme Ue, ma anche la propria carta fondamentale.

Non basta. Se l’Italia non può permettersi di riallargare il proprio deficit è anche per via del gigantesco debito pubblico, che ha sfondato quota 2.076 miliardi di euro – e abbiamo ben visto che succede se i mercati si agitano. Il già citato Six Pact impone una riduzione del debito eccedente la soglia del 60% (per l’Italia, nel 2013 al 133% del pil, vuol dire il 73%), in misura di un ventesimo l’anno (dal 2016). Teoricamente un bagno di sangue, oltre 50 miliardi di euro l’anno. In realtà, senza entrare nel dettaglio, la procedura prevede vari elementi (tra cui ad esempio il conteggio del debito privato), e con più di crescita, secondo la Banca d’Italia, il salasso sarebbe molto inferiore. Rimane, comunque, un elemento granitico che certamente non si più dimenticare. Anche perché – sempre per via del famoso Six Pack – se il debito non imbocca una via discendente scatta la procedura Ue con il rischio sanzioni. La stessa regola della riduzione di un ventesimo l’anno è presente anche nel Fiscal Compact e dunque nella nostra Costituzione. A questo punto rimane piuttosto difficile capire come possa pensare Matteo Renzi di “ridiscutere” con l’Europa la regola “vecchia di 22 anni” del deficit al 3 per cento. Forse sarebbe più conveniente puntare sulle pieghe nascoste del Patto, ad esempio sui margini sul fronte degli obiettivi di medio termine pur nel rispetto formale del 3 per cento. E magari sull’uso, sempre più elastico nelle mani di Bruxelles, del concetto di deficit “strutturale”. Si fa meno rumore che toccando il sagro Graal del 3 per cento. E magari si ottiene di più. 

X