Samia, annegata nel Mediterraneo sognando le Olimpiadi

Il nuovo libro di Giuseppe Catozzella

La storia di Samia Yusuf Omar è contenuta tutta nelle due date riportate da Wikipedia accanto al suo nome: Mogadiscio, 25 marzo 1991 – Mar Mediterraneo, aprile 2012Atleta somala, con la corsa nelle gambe sin da bambina, mentre il suo Paese è in guerra partecipa alle Olimpiadi di Pechino del 2008, correndo i duecento metri accanto a mostri sacri dell’atletica come Veronica Campbell Brown. Samia corre su due gambe sottili; in testa ha la fascia bianca che le ha regalato suo padre. Le altre tagliano il traguardo, lei arriva con 11 secondi di ritardo. La telecamera si stacca dalle prime classificate e la segue, mentre tutto lo stadio la accompagna battendo le mani falcata dopo falcata. Quattro anni dopo, morirà durante un viaggio in mare da Tripoli a Lampedusa, mentre sogna di partecipare alle Olimpiadi di Londra del 2012 per riscattare quell’ultimo posto.

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La fine della storia, tragica e triste, è conosciuta, eppure Non dirmi che hai paura (Feltrinelli), l’ultimo romanzo di Giuseppe Catozzella che racconta la vita di Samia Yusuf Omar, tiene incollati fino all’ultima pagina. Perché c’è qualcosa in più di una singola storia. C’è il racconto della guerra attraverso gli occhi di una bambina, c’è la voglia di fare sport che fa rischiare di essere colpiti da un cecchino (“Non dirmi che hai paura” è quello che Samia e sua sorella si ripetevano convinte che la paura portasse cose cattive), c’è il racconto del Viaggio disperato (con la prima lettera maiuscola) nel Mediterraneo. Catozzella, che per Feltrinelli fa anche l’editor, lo avevamo lasciato ai racconti dedicati alla presenza della criminalità organizzata in Lombardia, Alveare prima, Fuego poi. Ora entra nelle vita reale di una donna e dà voce ai dettagli di una storia che, come dice lui, «ha le caratteristiche dell’universalità».

Giuseppe, cosa ti ha spinto a raccontare la storia di Samia Yusuf Omar?
Nell’agosto del 2012 e
ro in Kenya, dove stavo cercando in realtà un’altra storia. Mi incuriosiva che il detentore dello scettro dell’Occidente, Barack Obama, avesse origini nel Nord del Kenya e fosse un rappresentante della tribù dei luo. Proprio quello è il territorio in cui si addestrano i taliban più feroci. Ero lì alla ricerca di una storia che riguardasse i talebani. Ma una mattina mi sono imbattuto in un notiziario di Al Jazeera, e in una delle news c’era il corridore somalo Abdi Bile che parlava di Samia a conclusione delle Olimpiadi di Londra. Quel notiziario ha cambiato tutto. Così ho deciso di mollare quel progetto, almeno per il momento, e dopo due giorni sono tornato in Italia.

Anche in questo caso, come per i tuoi lavori precedenti, parti da fatti reali. Perché?
Non so bene neanche io perché nel mio lavoro cerco questo ancoraggio alla realtà. È la mia cifra narrativa, mi piace raccontare storie vere, usando i mezzi della narrativa e della letteratura.

E hai anche scelto di raccontare la storia di Samia in prima persona. 
Ho scelto la prima persona dopo diversi tentativi, in realtà. Prima ho provato con la terza persona. Poi ho provato con la prima persona, raccontando la storia filtrata da me, ma non era ancora abbastanza forte. Poi una mattina ho scritto la prima frase del libro, e ho capito che in quel modo poteva funzionare, nonostante io sia molto diverso da lei: sono bianco, non sono musulmano e non sono così sportivo.

La descrizione dei luoghi è molto forte. Sei stato anche in Somalia?
No, in Somalia non sono mai stato. È molto difficile, essendo un Paese in guerra. A Somaliland, nel Nord, si può andare, ma a Mogadiscio no. A meno che tu non abbia un forte aggancio diplomatico, insomma serve una forte motivazione. È un procedimento complicatissimo. Quindi ho letto moltissimo e guardato molti film, oltre ad aver incontrato tantissimi ragazzi che hanno fatto il Viaggio in mare per arrivare in Italia. Poi il posto in cui sono stato in Kenya era a circa 100 chilometri dalla città in cui è nata Samia. Ma gran parte del libro è venuto fuori dall’incontro con la sorella di Samia, Hodan. E tutti i dettagli sono verificati. 

Come sei entrato in contatto con Hodan?
A portare la storia di Samia in Italia è stata la scrittrice Igiaba Scego, che ne ha scritto su Pubblico. A mettermi in contatto con Hodan invece è stata la giornalista americana di Al Jazeera, Teresa Krug, che aveva conosciuto Samia e l’aveva intervistata più di una volta. All’inizio Hodan non mi voleva incontrare, non mi rispondeva al telefono. Ci sono voluti mesi perché accettasse, e in questo ha avuto un ruolo fondamentale la mediatrice e interprete Zahra Omar. Così ho incontrato Hodan a Helsinki nel febbraio del 2013. Il primo giorno è stato un disastro. Abbiamo mangiato insieme in questa casa prefabbricata che il governo finlandese dà ai profughi, con Mannar, la figlia, e altri bambini che facevano rumore intorno. Appena ho preso il registratore e ho fatto le prime domande, lei è scoppiata a piangere. Singhiozzava. A un certo punto mi sono fermato e ho pensato che il giorno dopo saremmo andati via. Tutto però è cambiato quando io le ho spiegato perché volevo raccontare la storia di sua sorella. Quando avevo saputo della morte di Samia, mi sono sentito in colpa, in qualche modo responsabile. Mi sono sentito chiamato in causa come italiano.

Cosa significa?
Come cittadino italiano, lo dico francamente, non ho mai fato niente perché questo non accadesse. E l’Italia è responsabile di una legge, la Bossi-Fini, che costringe le persone ad affidarsi a dei trafficanti che non hanno nessun interesse a fornire imbarcazioni decenti per arrivare sulle nostre coste. È una legge moralmente ingiusta. Chi ha voglia di scappare così da casa sua e lasciare tutto? Sono persone che scappano dalla guerra. 

E alla fine ce l’hai fatta a entrare in confidenza con Hodan…
Sì, abbiamo trascorso insieme una settimana dalle 8 di mattina alle 10 di sera. Hodan si è aperta completamente a me. Mi ha mostrato foto e video di Samia, siamo entrati sul suo profilo Facebook e abbiamo ripercorso la sua vita e il suo Viaggio attraverso la corrispondenza tra loro due. Appena Samia trovava una connessione, contattava la Hodan e le raccontava il viaggio che stava facendo passando per l’Etiopia, il Sudan e poi la Lidia. Chattavano per ore, messaggi fittissimi, che lei mi ha fatto leggere. È stato incredibile.

E ora anche Mannar, figlia di Hodan, si allena per correre come la zia Samia.
Sì, Mannar è identica a Samia. Sembrano due gocce d’acqua. In fondo al libro è pubblicata la foto che le ho fatto con il cellulare. Hodan la porta agli allenamenti in palestra da quando aveva tre anni, e sembra avere un talento per la corsa.

Quando nel libro Samia arriva alle olimpiadi di Pechino con uno stacco di oltre 10 secondi da campionesse come Veronica Campbell Brown, molti giornalisti corrono da lei a intervistarla. Nel libro lei si chiede perché, in fondo non ha vinto. Poi capisce che la sua, quella di una ragazza nera in fuga dalla guerra che è arrivata fino alle Olimpiadi, è “una storia perfetta per spiriti occidentali”. E lo scrivi tu. Un’autocritica?
Sì probabilmente. Ma sono convinto che è una storia che si doveva raccontare, bisognava dare un’anima a queste persone che attraversano il Mediterraneo per arrivare in Italia. Bisognava prenderne uno e dargli un nome, la storia di Samia ha una valenza universale. E come la sua, ci saranno altre storie incredibili.

In effetti bisogna aspettare pagina 98 per vedere il nome completo della protagonista: Samia Yusuf Omar…
Sì, non è una cosa voluta. Ma forse è proprio perché doveva essere una storia il più universale possibile. Samia siamo tutti noi.

E ora questa “storia universale” diventerà anche un film.
La Leone Film Group, casa di produzione degli eredi di Sergio Leone, ha comprato i diritti del libro. C‘è un progetto internazionale, con un regista non italiano. Mi hanno chiesto di collaborare alla sceneggiatura. Ci proverò, sarà molto interessante.

E lo sport che ruolo ha per te? Nella storia di Samia è una via per la liberazione.
Lo sport è una cosa pazzesca. Adoro lo sport, è uno dei modi in cui l’uomo si dimostra nei suoi valori più alti. Nello sport c’è tutto: testa, fisico, agonismo, competizione, la voglia di vincere. È meraviglioso. Io non sono uno sportivo, vado a correre ogni tanto, per me è essenziale muovermi. Ma sono un dilettante. E il fatto che Samia fosse un’atleta mi ha fatto appassionare ancora di più alla sua storia.

Il tuo libro ha avuto recensioni più che positive da parte di grandi nomi come Erri De Luca e Roberto Saviano. Com’è possibile che questo libro piaccia così tanto nonostante si conosca la fine?
È un miracolo. Il lettore in realtà sa già tutto. Ma è una storia talmente incredibile che ti entra dentro, come è successo a me, perché contiene elementi di universalità.

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