Sansür: Censura
Capitolo 33
Udienza del 12 marzo
Il 12 marzo 2012 fuori alla sala dell’udienza del mastodontico tribunale di Çağlayan c’era la solita ressa. Questa volta sembrava ci fosse addirittura più gente della precedente. Dopo aver superato i ferrei controlli all’entrata, mi persi nel dedalo dei corridoi illuminati a giorno del palazzo di giustizia cercando invano la sala dell’udienza. Ebbi l’impressione che non avrei mai trovato la sala giusta. I corridoi sembravano moltiplicarsi, le pareti allungarsi a dismisura. Troppe aule, troppi ballatoi, troppe gallerie in cui dimenarsi. Sembrava che il palazzo non fosse stato concepito per esseri umani, piuttosto per automi che vagano per scale e passaggi eseguendo robotiche mansioni. Ogni tanto in qualche androne incontravo gruppi di magistrati, facce tese che attendevano in piedi fuori da aule gremite, donne che pregavano con il viso tra le mani, forse per rivedere libero il proprio marito o il proprio figlio. Non era un semplice palazzo di giustizia, si trattava di un universo a sé stante con le proprie leggi, le proprie sciagure, le proprie effimere gioie. D’un tratto vidi un giovane con una pettorina bianca con la figura di un uomo a cui si tappa la bocca. Era la pettorina del Sindacato dei Giornalisti Turchi. Seguii il ragazzo e m’infilai con lui in un ascensore pieno di uomini in giacca, cravatta e toga nera con il risvolto verde sul collo. Mi disse qualcosa in turco ed io sorrisi in maniera ebete. Non avevo capito, ma volevo che mi conducesse davanti alla sala dell’udienza e, chissà perché, non ebbi il coraggio di dirglielo in inglese. L’ascensore era troppo gremito ed io avevo di fronte una coppia di donne velate che mi fissavano non senza una certa durezza. Perché ero straniero? Non mi piaceva sentirmi tale. Più volte mi avevano scambiato per turco, altre volte per magrebino, siriano o arabo. I turchi non sono così scuri di carnagione come ce li si aspetterebbe.
Alcune donne hanno la pelle bianchissima, come le iraniane, con grandi occhi neri. Altre sono bionde o addirittura rosse. L’Impero Ottomano era giunto fino alle porte di Vienna. Molti turchi che avevo conosciuto provenivano dalla Croazia, dalla Bosnia, dalla Macedonia. Era una straordinaria mescolanza di razze diversa da quella che si può vedere a Londra, Parigi o New York perché era più antica, più profonda. Certi uomini poi avevano viso da mongoli, capelli lisci e neri, occhi quasi a mandorla. Altri sembravano italiani o spagnoli. L’ascensore si aprì. Appena uscito, sulla mia destra, vidi una calca impressionante davanti ad un’aula protetta da un cordone di polizia. «Questa volta non riuscirò ad entrare», mi dissi. Incrociai nuovamente il responsabile di RSF in Turchia, Erol Önderoğlu. Mi salutò cordialmente e mi disse: «E come sta la stampa in Italia? Non così bene vero?» Feci una smorfia. Già, l’Italia, un paese in cui la quasi totalità dei media è in mano ad una sola persona che per vent’anni aveva dominato anche il panorama politico, viveva una situazione solo apparentemente diversa.
La censura in Italia non si presenta sotto forma di carcere, è qualcosa di più sottile ed invisibile, ma le pressioni politiche sui giornalisti restano nondimeno forti e non tutti possono scrivere in totale libertà. Erol Önderoğlu mi presentò altri giornalisti venuti in massa a sostenere Ahmet Şık e Nedim Şener. Intravidi Esra Arsan, della Bilgi Üniversitesi, che mi fece un cenno con la mano e mi sorrise. C’era anche la figura alta e rassicurante di Necati Abay, della Piattaforma per la Liberazione dei Giornalisti ed un responsabile della Federazione Europea dei Giornalisti (EFJ). Un poliziotto aveva una lista in mano e chiamava a voce alta. Improvvisamente il gruppo di Erol Önderoğlu si mosse. M’infilai anch’io dietro di loro, ma il poliziotto mi bloccò. Erol Önderoğlu si rivolse subito al gendarme, prima di girarsi verso di me, dirmi a voce bassa “Wait here” ed entrare. Il poliziotto mi chiese la tessera stampa internazionale e mi confermò di dover attendere. Pian piano entrarono tutti, io rimasi con un gruppetto di persone all’esterno dell’aula. Andai a cercarmi un çay da una ragazza che vendeva simit ed altri rustici su un banconcino mobile e mi sedetti su un sedile di legno a sorseggiarlo. Aspettai diversi minuti. Per ingannare l’attesa e smorzare la tensione osservavo la gente che passava lungo il corridoio. Alcuni uomini erano gracili, altri panciuti. C’erano ragazze giovanissime, c’erano anziane con il bastone sorrette da ragazzini. Avvocati giovanissimi scherzavano tra di loro, una famiglia mangiava uno spuntino durante una pausa dell’udienza. La vita, mi dissi, continuava anche e nonostante le tragedie o le gioie di ogni giorno. Cercai d’indovinare la natura delle persone che osservavo e pensai alle miriadi di storie che si snodavano in quell’intestino arzigogolato. Era davvero un microcosmo quel palazzo con tutto quel corteo silenzioso e sofferente di umanità. Dopo un tempo apparentemente infinito mi avvicinai al poliziotto insistendo per entrare. Lui si girò verso un proprio collega, mi guardarono, scrutarono lista. Infine uno dei due chiese: «Marco Cesario?», io immediatamente affermai: «Evet!» 167. Il poliziotto mi guardò ancora un attimo prima di lasciarmi entrare. Dovevo avere un’espressione di stupore stampata sul viso in quanto, quando passai, un altro poliziotto nelle vicinanze della porta mi accolse con un sonoro «Buongiorno!», in perfetto italiano, restituendomi la tessera stampa. Io sorrisi e ringraziai. Mi sembrò un buon presagio prima dell’udienza.
La sala era gremita e non si respirava. Un usciere mi fece il segno di entrare subito perché a quanto pare l’udienza stava per cominciare. Non c’era posto. Appena entrai vidi Yonca, seduta proprio in prima fila. Mi fece un cenno. Poi, voltandosi verso suo marito Ahmet Şık, già seduto al banco degli imputati, mi indicò. Ahmet Şık si voltò verso di me, mi fece un gran sorriso e contemporaneamente si mise una mano sul cuore. Ricambiai il gesto da lontano. Fu un momento forte. Avevo seguito da lontano quell’uomo per mesi, per mesi m’ero immerso nella sua inchiesta e dimenato in foschi complotti, ora era lì davanti a me e lo si giudicava semplicemente per aver scritto un libro, per aver messo insieme i pezzi d’un puzzle complicato ed averne tratto le dovute conclusioni. Durante i colloqui in prigione Yonca doveva avergli parlato di me, del fatto che scrivevo anche su di lui e che avrei tradotto stralci del suo libro. Di nuovo ebbi quella percezione di essere il personaggio di una storia scritta da qualcunaltro, un autore che traccia impercettibilmente un itinerario tortuoso lungo le pagine di un libro.
Quando mi sentivo assente, era perché l’autore non stava scrivendo o forse perché il lettore aveva temporaneamente chiuso il libro. Nedim Şener era seduto un po’ più in là, notevolmente dimagrito, come mi aveva già fatto notare Niyazi, ma in buona forma. Esra Arsan era seduta dall’altro lato della sala e twittava. La raggiunsi. «Speri nella liberazione?» «Lo spero sempre», rispose. «Probabilmente l’udienza sarà aggiornata a giovedì o venerdì» aggiunse «si spera nella liberazione, ma è difficile». La sala era piena e non sapendo dove sedermi mi accoccolai a terra, poggiando la mia schiena sulla parete rivestita di legno dell’aula della Sedicesima Sezione della Corte Penale d’Istanbul. Osservando il numero di giornalisti e il grande flusso di semplici cittadini che desideravano assistere al processo, mi resi conto che la battaglia per la liberazione di Şık e Şener era oramai diventata un battaglia della società civile, una battaglia per trasformare la Turchia in un paese pienamente democratico. C’erano giornalisti d’agenzia e reporter che prendevano appunti. Tra quelli seduti nelle prime file vidi anche Mavioğlu. I poliziotti erano un po’ ovunque. Il mio occhio focalizzò per un attimo le manette del poliziotto che poco prima mi aveva intimato di sedermi anche se non c’erano più posti liberi. Le manette. Esiste simbolo più eloquente della repressione dell’essere umano? Tra gli imputati ed il pubblico si trovava un cordone di militari in tuta mimetica con la scritta Jandarma su pettorine color arancio.
L’udienza fu lunga, l’atmosfera opprimente, l’aria caldissima. Ogni tanto Esra Arsan mi aggiornava su quello che succedeva mentre twittava contemporaneamente dal suo tablet. «Questa è la Turchia, mi mancano i miei bambini» dichiarò Ahmet Şık ai giudici prima di aggiungere: «Stare in prigione è diventata oramai una consuetudine per tutti i giornalisti in questo paese». Durante la pausa riuscii a salutarlo, gli strinsi forte la mano. Mi presentai anche a Nedim Şener, che non avevo mai incontrato, l’avevo visto solo da lontano, in occasione della prima udienza, o in fotografia. In quel mentre incrociai anche Frank Nordhausen, corrispondente della Berliner Zeitung, e la sua assistente Seher Yücel che gli traduceva tutto in inglese.
Pensai che non avevo i soldi per pagarmi un’assistente e che me la sarei cavata anche stavolta carpendo i vari momenti del dibattito seguendolo accanto ai colleghi turchi anglofoni. Sembrava paradossale, eppure Nedim Şener stava rilasciando una breve intervista. Sorrideva. L’atmosfera era rilassata nonostante la situazione non fosse certo delle più rosee. Si poteva stare in prigione un anno senza essere condannati? Dopo diverse ore seduto a terra, finalmente riuscii a trovare una sedia libera. Una giornalista se n’era andata lasciandola vuota. Faceva caldissimo nella sala. Inoltre quella notte avevo dormito pochissimo, la mente invasa da sogni strani. Vidi un viavai di gente durante l’arringa dell’avvocato. Ci fu una breve pausa.
Si attendeva la fine dell’udienza per sapere quale sarebbe stata la decisione del tribunale. Già, quale? Mi chiedevo se il calvario di Ahmet Ahmet Şık e Nedim Şener sarebbe finalmente finito. L’udienza riprese. Tornammo tutti nella sala. Ahmet Şık cominciò a difendersi. Poi fu il turno di Nedim Şener. Un usciere che mi stava osservando da un bel po’ con piglio severo mi disse che non potevo registrare l’audio. Intanto Ahmet Şık aveva ripreso la parola, per aggiungere qualcosa. Dopo di lui Nedim Şener concluse: «Non ho fatto nulla, voglio essere rilasciato». Göktan mi aveva detto che quel giorno era riapparso un giornale che non era stato pubblicato per cinquant’anni, il Marko Paşa, con una prima pagina intitolata: «Rilasciate i nostri amici». D’un tratto uno degli imputati fece una battuta ironica: «Quanti giornalisti in prigione sono accusati di terrorismo? Non è che forse dovremmo cercare il gene del terrorismo nel DNA dei giornalisti turchi?». Tutta la sala scoppiò a ridere.
L’aria diveniva sempre più irrespirabile. Uscimmo finalmente dall’aula in attesa, ora sì, della decisione finale del tribunale. Si scambiavano opinioni, ma nessuno si sbilanciava, nessuno sembrava avere un’idea precisa di cosa potesse accadere. Tra çay e chiacchiere, passò un tempo lunghissimo. Molti giornalisti cominciarono ad andare via, alla spicciolata. Alcuni commentavano: «L’udienza sarà sicuramente aggiornata». Pochi rimasero ad attendere l’esito ufficiale. S’era fatto tardi e cominciavo a perdere le speranze anch’io, così decisi di abbandonare il tribunale e di avviarmi verso casa. In metropolitana, diretto verso Kabataş, mi misi ad ascoltare musica sufi composta da Mercan Dede. Osservavo il viavai della gente, le coppie di ragazzi che si tenevano per mano nella funicolare verso Taksim. Sì, la vita continuava nonostante tutto. Esausto, percorsi la strada scivolosa verso casa, scendeva giù fino al mare, una distesa nera adagiata ai piedi della collina.
Non ebbi il tempo di entrare che sentii un breve squillo del telefono. Era un messaggio della giornalista Gülşah Karabağ . Lo aprii. Sullo schermo campeggiavano solo tre parole: «They are free!». Non ci potevo credere. Fissai il cellulare e rilessi più volte il messaggio prima di chiamarla e di sentirla pronunciare quelle stesse parole. La Sedicesima Sezione della Corte d’Assise d’Istanbul aveva ordinato la scarcerazione immediata di Ahmet Şık e Nedim Şener e dei cronisti di OdaTv Sait Çakır e Coşkun Musluk, tutti in detenzione dal 6 marzo 2011. Finalmente liberi! Un anno di vita in prigione… per cosa? Il presidente del Tribunale Mehmet Ekinci, che aveva considerato la detenzione dei giornalisti sufficientemente lunga, aveva paventato anche un alleggerimento della posizione degli imputati. «Ahmet Şık e Nedim Şener sono liberi ma il loro processo continua», precisò per telefono Gülşah. Il gruppo di Amici di Ahmet e Nedim, responsabili della Piattaforma dei Giornalisti e numerosi altri reporter confluirono davanti alla prigione di Silivri per accogliere i due giornalisti all’uscita della casa circondariale. Urla, slogan, grida di gioia, abbracci appena usciti. Era una bellissima notizia per la Turchia ed una bella sensazione vedere la felicità ed il sollievo per quei due giornalisti e per i loro colleghi che erano riusciti a saldare l’opinione pubblica dietro la battaglia per la libertà di parola. Subito dopo aver abbracciato la moglie e i suoi cari, Ahmet Şık, il viso fermo e teso dopo mesi d’isolamento, rilasciò una dichiarazione inattesa ai cronisti riuniti all’esterno. «Una giustizia menomata non può far rispettare le leggi né produrre democrazia» disse severo Ahmet «solo nella mia inchiesta ci sono altri cinque imputati ed altri cento giornalisti sono ancora richiusi nelle prigioni. Il tema della libertà di parola non è soltanto un problema giornalistico. Ci sono circa seicento studenti in prigione. Continueremo a lottare. Un giorno, coloro che hanno fomentato questo complotto, i poliziotti, i procuratori ed i giudici che l’hanno messo in atto saranno a loro volta rinchiusi in questa prigione. La giustizia prevarrà soltanto quando li vedremo varcare questa soglia. I colpevoli di questo complotto sono personaggi della burocrazia e della polizia che hanno legami stretti con la Cemaat. Ma il vero responsabile di questo stato di cose è il governo dell’AKP che continua a tacere».
Parole al vetriolo che non potevano certo passare inosservate in un paese dove la libertà di parola non era affatto garantita o che lo era soltanto se non si metteva in causa il governo, la Cemaat o una magistratura asservita.
Detto fatto. Una settimana dopo aver pronunciato queste parole all’uscita della prigione di Silivri, Ahmet Şık veniva nuovamente incriminato per aver «minacciato ed indicato procuratori e giudici come possibili obiettivi di un’organizzazione terrorista». Più tardi il procuratore Necip Doğan per quest’accusa avrebbe chiesto per Ahmet Şık dai tre ai sette anni di prigione. L’incubo ricominciava. Nuovamente si minacciava di punire la verità dei fatti. La liberazione di quei giornalisti non significava la liberazione definitiva della parola. Altre decine di giornalisti erano ancora dietro le sbarre e la loro liberazione era tutt’altro che garantita. Lo avrebbe perfettamente spiegato qualche tempo dopo Hamdiye Çiftçi, corrispondente nella Turchia sudorientale per la Dicle News Agency (DİHA), dalla prigione in cui era rinchiusa per essere stata accusata, ed in seguito condannata, nell’ambito del processo contro l’Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK). Dalla sua cella Hamdiye spedì un articolo alla ‘Gazzetta del Prigioniero’ in cui diceva: «C’è sempre stata una stampa di opposizione in Turchia. Siamo diventati un argomento d’attualità solo quando Ahmet Şık e Nedim Şener sono stati arrestati. Ad ogni modo, non ci sono solo loro. Esistiamo anche noi.
Quando Ahmet e Nedim sono stati rilasciati, c’era un’atmosfera di entusiasmo come se il problema della libertà di stampa e d’espressione fosse stato improvvisamente risolto. Non è così, la mia detenzione lo dimostra». Come darle torto? Era chiaro che era stata vinta solo una piccola battaglia, non la guerra. Ed il nemico purtroppo aveva armi molto potenti.