Un’Italia con famiglie sempre più povere e che rischia di non tornare ai livelli di Pil precedenti alla crisi del 2007 neanche dopo il 2019. È quello che emerge da due analisi pubblicate quasi in contemporanea da Banca d’Italia e dal Centro studi di Confindustria (Csc).
Lo studio “I bilanci delle famiglie italiane” di Bankitalia, che esce ogni due anni e che in questo caso si riferisce al 2012, ha evidenziato come tra il 2010 e il 2012 il reddito familiare sia calato in termini nominali del 7,3 per cento. La ricchezza media è diminuita invece del 6,9 per cento.
Il deterioramento delle condizioni economiche, in termini di reddito equivalente fatta 100 la media generale, è stato più accentuato tra i lavoratori indipendenti, rispetto a quello dei dipendenti e delle persone in condizione non professionale. Sale, invece, l’indice relativo ai pensionati.
La flessione ha riguardato tutte le classi d’età tranne gli anziani.
Se i redditi calano, anche la ricchezza è in picchiata. Tra il 2010 e il 2012 il valore mediano della ricchezza netta è diminuito di circa il 12,7 per cento, riflettendo principalmente il calo nel valore degli immobili che ne costituiscono la parte più consistente. La diminuzione registrata dal valore medio della ricchezza risulta inferiore e pari a circa il 6,9 per cento.
Questa diminuzione non è stata certamente omogenea: il 10 per cento delle famiglie più ricche possiede il 46,6 per cento della ricchezza netta familiare totale (45,7 per cento nel 2010). La quota di famiglie con ricchezza negativa è aumentata al 4,1 per cento, dal 2,8 del 2010. La concentrazione della ricchezza, misurata in base all’indice di Gini, è pari al 64 per cento, in aumento rispetto al passato (era il 62,3 per cento nel 2010 e il 60,7 nel 2008).
Pil potenziale, l’allarme del Centro studi Confindustria
Se la bassa crescita del Pil e della ricchezza preoccupa, ancor di più deve preoccupare l’abbassamento del Pil potenziale. Anzi, il suo dimezzamento, che è una vera ipoteca su tutti i progetti di sviluppo. A dirlo è una nota del Centro studi di Confindustria (Csc), che avverte: la ripresa non potrà che essere debolissima se non si accelererà sulle riforme strutturali.
Al centro della ricerca ci sono le considerazioni sul Pil potenziale, ossia il Pil che si avrebbe con il pieno impiego della capacità produttiva. In altre parole, è il livello di attività che un sistema economico può raggiungere nel caso utilizzi appieno tutti i fattori di produzione disponibili. Secondo le stime del Csc la crisi in atto dal 2008 ha intaccato nettamente tale Pil potenziale, abbassandolo dall1,1% a meno di mezzo punto percentuale all’anno nel medio termine. Rispetto alle traiettorie già modeste del decennio 1997-2007, si legge nella nota, il livello del Pil potenziale è più basso del 12,6%. In altri termini sono andati bruciati 200 miliardi di euro a prezzi 2013, quasi 3.500 per abitante.
Il vero rischio è che si tratti di correzioni di rotta durevoli. Le stime di diversi organismi internazioni (si vela la tabella qui sotto) concordano nel dire che il tasso di crescita potenziale sia rimasto negativo nel 2013 e che tornerà leggermente positivo solo nel 2015, con valori che variano tra un +0,1% e un +0,3 per cento, ossia sempre molto bassi. In assenza di riforme vigorose, l’Fmi stima che un tasso di crescita del Pil potenziale dell’Italia sarà di appena del +0,5% ancora nel 2018.
C’è stata, in questi anni, una diminuzione della capacità di crescita, attraverso chiusure di impianti e di imprese e un mercato del lavoro che sempre meno è stato capace di far incontrare richiesta e offerta di competenze dei lavoratori. Il minor livello di investimenti ha poi ridotto l’innovazione incorporata negli impianti, rendendoli tecnologicamente obsoleti. A incidere sulla diminuzione degli investimenti e sulla riduzione dello stock di capitale disponibile in futuro è stato soprattutto il credit crunch. Meno credito, insomma, ha significato un ostacolo alla riallocazione più efficiente sul capitale verso attività produttive e ha quindi ridotto l’incentivo a investire in ricerca e sviluppo.
Secondo il Fmi, per chiudere il gap negativo nel 2019 il Pil italiano dovrebbe crescere a tassi medi annui dell’1,2 per cento, un punto percentuale in più rispetto al ritmo di aumento del potenziale stimato tra il 2013 e il 2018 (ferma al +0,2%). Eppure, anche questo non basterebbe per riportare il Pil italiano al livello del 2007, rimanendone al di sotto di tre punti percentuali.
La conclusione della nota del Csc è che servono incisive riforme strutturali che portino a un aumento delle quantità e della qualità degli investimenti e della forza lavoro.
Su questo aspetto c’è l’unica nota di speranza. In uno studio dell’Ocse del settembre 2012, l’effetto delle riforme effettuate dal governo Monti veniva stimato in un aumento della crescita di 0,3-0,4 punti percentuali. Secondo uno studio effettuato da ricercatori dell’Fmi e diffuso nel gennaio 2013, se implementate appieno le riforme effettuate tra il 2011 e il 2012 (dalle liberalizzazioni di alcuni mercati dei prodotti e del lavoro alle semplificazioni amministrative) sarebbero in grado di generare guadagni considerevoli e avrebbero la capacità di incrementare il Pil potenziale dell’Italia di circa il 5,5% dopo cinque anni e di oltre il 10% dopo 10 anni.