Di Lucia Quaglino
Un giorno esce uno studio secondo cui il lavoro delle casalinghe varrebbe 7.000 euro, il giorno dopo c’è chi dichiara che lo Stato deve riconoscere alle casalinghe un salario e una vera pensione. Magari si tratta di una semplice provocazione, magari è invece un’idea in cui si crede davvero, ma in entrambi i casi la domanda che non trova risposta è: perché? Per quale motivo lo Stato dovrebbe pagare le casalinghe? Una delle spiegazioni potrebbe essere rinvenuta nell’articolo sopracitato. L’avvocato Bongiorno, autrice della proposta, dichiara che “il problema a monte è considerare che il lavoro domestico sia una prerogativa esclusivamente femminile”. Dunque, l’idea sottostante – se non si interpreta male – è quindi che, se il lavoro casalingo fosse remunerato, sarebbe più appetibile anche per gli uomini. Di conseguenza, la retribuzione consentirebbe di incentivare nella vita domestica un riequilibrio tra i generi, all’incontrario con quanto accade in ambito professionale.
In tal caso, però, non si tiene conto (e si forzano quindi) delle preferenze personali. Infatti, non tutte sono casalinghe sono disperate, molte potrebbero essere casalinghe per scelta. Mentre chi non ama pulire, rassettare, cucinare e tutto quanto concerne il lavoro casalingo, continuerà a non amarlo e a non volerlo fare. Del resto, i 7.000 euro tengono conto del numero di ore spese per ogni attività domestica, e quindi non includono una remunerazione aggiuntiva che comprenda anche il disagio di fare un lavoro che non è gradito. Se all’uomo non piace fare il casalingo, continuerà quindi a non farlo. Se non piace neanche alla donna, sta a loro e non allo Stato trovare la soluzione.
Quest’ultima potrebbe basarsi, ad esempio, sull’analisi del bilancio famigliare: in un mondo razionale, la decisione su chi deve fare i lavori di casa e chi invece deve lavorare al di fuori dipende dal relativo stipendio. Quindi dovrebbe lavorare a casa chi guadagna di meno, ossia x-1 (prendiamo pure il caso della donna, dato che di questo si parla), dove x è lo stipendio maggiore. Ma neanche questa è una decisione scontata: la scelta ultima tra il lavoro domestico e quello al di fuori, dipende anche dal confronto con le alternative. La donna stabilirà di stare a casa solo se il suo stipendio è inferiore al salario (y) che dovrà dare a una colf e/o baby sitter (ossia, x-1<y) per fare ciò che lei non può perché in ufficio: in caso contrario, deciderà di lavorare fuori casa e pagare la colf, poiché così facendo contribuirà all’utile domestico per un valore pari alla differenza tra (x-1) e y (risultante > 0).
Qualora, quindi, la donna dovesse decidere di fare la casalinga, sarà per una scelta presa da lei e il marito. Questo può accadere in base a motivazioni personali – preferisce essere presente nella vita dei figli (in altre parole, il suo stipendio nel mondo del lavoro è comunque troppo basso rispetto alla scelta casalinga che, quindi, ha per lei un valore maggiore) – oppure in base ad argomentazioni economiche: è più remunerativo stare a casa che lavorare fuori. Per quale motivo, quindi, lo Stato dovrebbe pagare per una scelta che i componenti della coppia hanno fatto considerati i propri gusti, inclinazioni, preferenze e tenuto conto del proprio bilancio famigliare? Starà a loro decidere come ripartire il denaro che entra in casa sotto forma di stipendio, ossia la percentuale che l’uomo deciderà di dare alla donna come remunerazione del suo lavoro a casa o del suo non-lavoro in ufficio su cui si erano accordati. Cioè, sta a loro trovare il modo di retribuire le attività che svolgono e di cui solo loro e nessun altro della collettività (presupposto di una certa rilevanza per giustificare il contributo economico pubblico) beneficiano.
Qualsiasi intervento statale avrebbe effetti distorsivi. Innanzitutto, bisognerebbe definire quali mansioni rientrano tra quelle di una casalinga, con il rischio che molti lavori che oggi sono esternalizzati (sarta, tintoria ecc.) vengano internalizzati, togliendo quindi attività al mercato del lavoro extra-casalingo, non perché abbiano relativamente più valore se internalizzate, ma perché lo stato li paga. In questo caso, peraltro, andrebbe misurata pure l’efficacia/risultato del lavoro svolto dai casalinghi rispetto a quello svolto dai professionisti: il tempo in cui il bottone resta attaccato, può rappresentare una buona proxy? Non è poi chiaro come si dovrebbe remunerare il lavoro in più, ad esempio se si sporca una camicia di troppo o si rovescia un bicchiere di vino a terra.
È quindi evidente che, pagando il lavoro casalingo, lo si drogherà: l’intervento pubblico lo farà sembrare più remunerativo e, quindi, maggiormente appealing, di quello che in realtà è, scoraggiando così le donne (o comunque chi nella coppia decide di restare a casa) a lavorare, o incentivandole a lavorare in nero. In entrambi i casi c’è una perdita netta per la collettività: nel primo, il lavoro non va dove vale (è retribuito) di più e, quindi, c’è una minore crescita economica; nel secondo, c’è una perdita in termini di gettito fiscale.
Ci sarebbe poi il problema di trovare le risorse: se si rispetta il principio dell’equilibrio di bilancio, sarà necessario aumentare l’imposizione fiscale, magari sul lavoro dei mariti, o sulle case di proprietà della donna… con una mano si dà, con l’altra si prende e nessun valore aggiunto viene creato. Anzi.
Infine, anche ammettendo che l’uomo e la donna in questione non siano razionali e, quindi, non prendano la decisione economicamente più conveniente, in tal caso avrebbero una perdita di entrate: se, testardamente, decidessero di non rivedere i loro piani economici, allora probabilmente arriverebbero poi a essere idonei per il sussidio di povertà. Anche in tal caso sarebbero entrambi protetti dallo Stato. Concludendo, se è vero che i proverbi hanno un fondo di saggezza, tra moglie e marito…