Hai 20 minuti per parlare con Eden e Roosevelt, ovvero il ministro degli Esteri inglese e il presidente americano. Lo stai facendo perché è il tuo dovere, perché te l’ha chiesto la Resistenza polacca, e da quando il tuo esercito non esiste più sono diventati loro il tuo esercito. Quindi lo fai perché è il tuo dovere, come cento altre volte lo hai fatto con successo. Ma stavolta fallisci. Dopo avere attraversato mille frontiere, rischiando la vita ogni giorno, fino ad entrare, sempre con false identità, nel ghetto di Varsavia e nel campo di Belzec, per testimoniare e riferire gli orrori dello sterminio, ben dopo il 1940; dopo aver visto morire la tua donna, bruciata e pugnalata dai nazisti; dopo aver visto coi tuoi occhi l’orrore della Shoah, travestito da guardiano ucraino, col rischio di farti scoprire appena sbagli un accento… Dopo aver visto, vinto e oltrepassato tutto ciò non sei stato creduto. O, peggio, non ti hanno dato ascolto, perché gli alleati, come sostengono diversi storici, dell’Olocausto sapevano già tutto, ma nel mezzo della guerra mondiale avevano altri obiettivi, altre “priorità”.
Ecco, questa storia di cui ci siamo immaginati per un attimo protagonisti, come nel più classico dei thriller mozzafiato, l’ha vissuta Jan Karski, classe 1914, da Lodz (morirà nel 2000 a Washington). Karski è un soldato polacco che viene catturato e riesce a scappare in mezzo a uno scambio di prigionieri tra russi e nazisti, finché si arruola nella resistenza e si fa notare per freddezza, scaltrezza, temerarietà, fino a conquistare la fiducia degli ebrei di Varsavia. La sua è una storia unica, raccontata senza retorica e col gusto della suspence in Jan Karski. L’uomo che scoprì l’Olocausto (Rizzoli Lizard). Ne parliamo con Marco Rizzo: il giornalista trapanese, 30 anni, autore dei testi per i disegni di Lelio Bonaccorso, ci aiuta a capire il senso della storia del soldato Karski: il suo incrollabile senso del dovere. Il sentimento di avere un compito, un debito ineludibile verso chi gli ha consegnato la sua fiducia.
In che modo avete dribblato la retorica tipica di alcune rievocazioni?
La storia di Karski, che lui stesso ha raccontato nel libro La mia testimonianza davanti al mondo, non è noiosa di suo: leggerla, riviverla, non ti permette di tirare il fiato. Poi per mia scelta, ma sarà anche un mio limite, non riesco a scrivere pagine strappalacrime. E la commozione, in questo caso, viene naturalmente da sola.
Perché gli alleati non hanno creduto a Karski?
Probabilmente gli alleati avevano altre priorità, in quel momento della guerra. Di sicuro Karski fu il primo grande testimone de visu, e forse, anche se fu creduta, la portata della strage non fu colta nella sua vastità.
Il disegno di Buonaccorso è estremamente realistico, qui. Le fisionomia dei personaggi sono autentiche o di fantasia?
Perlopiù ci siamo documentati con fotografie dell’epoca, quindi restando fedeli alla storia. Solo il partigiano Dziepaltowski, che era biondo e avvenente, lo abbiamo voluto disegnare più basso e tozzo. In ogni caso Lelio caratterizza moltissimo le facce dei personaggi, e solo i nazisti sembrano tutti uguali tra loro, col naso e il volto affilati: identici uno all’altro, come soldatini-giocattolo privi di personalità.
Nella sua militanza partigiana Karski rischia continuamente la vita. Qual è il segreto di tanto coraggio?
Nelle sue memorie la sua sola paura, il suo solo dubbio è quello di essere adeguato alla missione. In un passo scrive: «Mi avevano investito di un ruolo di confessore, più che di fiduciario: ne fui particolarmente orgoglioso». Ecco, il suo senso del dovere è al principio del suo sangue freddo. Una volta addirittura attraversa il confine della Polonia con uno zaino gonfio di dollari americani, scoprendone il contenuto solo una volta arrivato a destinazione…
E poi c’è una straordinaria capacità di sopravvivere, cambiando identità e attraversando centinaia di posti di blocco…
Beh, una sequenza di azioni eroiche come la sua la possono vantare pochissimi partigiani al mondo.
C’è spazio anche per un’amara vena ironica, quasi per il sorriso, a tratti, in questa storia tragica…
Succede nella scena del dentista: Karski sta attraversando in treno l’Europa, e cogli altri passeggeri finge di avere mal di denti per non parlare e tradirsi col suo accento polacco. Un signore seduto davanti a lui si preoccupa fino al punto da costringerlo a scendere con lui alla prima stazione. «Ti porto da un dentista mio amico!», gli fa. E così arrivano insieme nello studio di un sottufficiale nazista: un dentista in uniforme che sgrida Karski perché non ha cura dei suoi denti, tanto che alcuni li ha persi. Solo che a Karski i denti erano caduti spezzati dai pugni dei suoi aguzzini tedeschi, quand’era prigioniero… Ma c’è un altro brano spassoso: quando Jan, ad Angers, incontra un vecchio collega di università, partigiano come lui in Francia, e i due continuano a scambiarsi botta-risposta evasivi, finendo ogni volta a parlare del tempo che fa. E capendo, proprio in questo modo ellittico, di esser lì entrambi a fare la stessa cosa!