Quando la crisi morde, non ci sono né vincitori né vinti. Ma solo chi reagisce in un modo o nell’altro rispetto agli effetti della recessione. È successo in Italia per gli uomini e le donne: mentre il tasso di occupazione maschile è passato dal 70% del 2007 all’attuale 64%, quello femminile si è mantenuto più o meno stabile dal 46,6 precrisi al 46,2 per cento. Cosa è successo? Le donne sentono di meno la crisi? Non proprio. Anche se, in generale, le condizioni delle lavoratrici restano peggiori di quelle dei lavoratori per salario percepito, sottoccupazione e sovraistruzione, negli anni della crisi il divario tra generi si sta riducendo. Ma solo perché la condizione maschile peggiora di più di quella femminile. Il risultato è che più donne stanno entrando nel mondo del lavoro, senza però migliorare la propria condizione di vita. Anzi, di fronte ad aziende sempre meno inclini a spendere per il costo del lavoro e a politiche sociali sempre meno propense a spendere per il welfare familiare, il rischio è l’aggravarsi della crisi sociale.
1. Cosa è accaduto
Cominciamo dal principio. Come si legge in Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi di Emilio Reyneri e Federica Pintaldi, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro dal 1973 al 2003 – sia come occupate sia come disoccupate (quindi in cerca di lavoro) – in Italia è cresciuta ininterrottamente. Tendenza che nel 2004 si è interrotta, finché tra il 2007 e il 2008 le donne hanno raggiunto il loro «miglior risultato nel mercato del lavoro italiano», con il livello più basso del tasso di disoccupazione (meno dell’8%) e il livello massimo di occupazione (poco oltre il 47%), che resta comunque il più basso dell’Unione europea, escludendo Malta.
Dal 2002 al 2008 l’occupazione nel nostro Paese è aumentata solo nel Centro Nord, mentre nel Mezzogiorno è rimasta stabile per le donne ed è diminuita per gli uomini. La riduzione del tasso di disoccupazione delle donne meridionali non significa però che fosse più facile trovare un lavoro. Anzi: è intervenuto quello che i sociologi chiamano “effetto di scoraggiamento”, che ha portato a una caduta del tasso di attività femminile, dal 40% nel 2003 al 36% nel 2008, dovuto al passaggio di una frazione di donne dalla condizione di ricerca attiva di lavoro a quella di inattività disponibile al lavoro. Dal 2004 al 2008 al Sud le disoccupate passano dall’8 al 6%, ma le inattive disponibili al lavoro crescono di 2,5 punti percentuali (dal 14 al 16,5%). Di fronte alla difficoltà di trovare un lavoro, insomma, non poche donne meridionali hanno smesso di cercarlo, nonostante siano rimaste disponibili ad accettare una proposta di lavoro.
Dal 2008 al 2011, il fenomeno dello scoraggiamento si estende però a tutta l’Italia: in questo periodo, a fronte di una caduta dell’occupazione maschile e a una stabilità di quella femminile, la percentuale di donne disoccupate è ferma al 5%, mentre si consolida intorno all’8,5 per cento una fascia di donne inattive ma disponibili al lavoro.
Il quadro cambia nel 2012, quando la disoccupazione esplode in tutta Italia: l’occupazione maschile cade a picco, mentre quella femminile cresce di poco, ma solo grazie al part time. Nello stesso periodo aumenta di 1,5 punti la quota di donne in ricerca attiva. In questa fase più donne si sono messe alla ricerca di lavoro invece di scoraggiarsi.
La crisi, insomma, ha avuto prima l’effetto di scoraggiare le donne verso la partecipazione al mondo del lavoro. Poi, quando è diventata sempre più grave, con l’impoverimento di molte famiglie per la caduta dell’occupazione maschile, la prolungata durata della cassa integrazione e la scomparsa degli straordinari dalle buste paga, si è avuto quello che viene chiamato effetto “lavoratrice aggiuntiva”.
2. Gli effetti della crisi
Se nel 2008 le donne disoccupate, cioè alla ricerca attiva di un lavoro, sono 877mila, nel 2012 sono oltre 1,2 milioni. Con un aumento del 31,21 per cento. Nello stesso periodo i maschi disoccupati sono passati dagli 899mila a oltre 1,4 milioni. Con un aumento del 38,80 per cento. Come si vede, l’incapacità di trovare lavoro aumenta soprattutto per gli uomini. Fattore che può aver spinto molte donne, magari prima casalinghe, a mettersi alla ricerca di un impiego (senza però trovarlo necessariamente).
Gli aumenti nelle varie forme di partecipazione femminile al lavoro (occupazione, disoccupazione o disponibilità) sono stati più elevati, non a caso, per le donne single e per le donne sposate con figli. Per le madri di famiglia la fascia delle occupate aumenta di oltre un punto percentuale, quella delle disoccupate di oltre 1,5 punti e quella delle inattive disponibili di oltre un punto. Le “lavoratrici aggiuntive” che passano dallo scoraggiamento a una maggiore partecipazione al lavoro sono infatti soprattutto donne che vivono in famiglie di ceto medio-basso e con figli, che si sono attivate dopo i problemi lavorativi dei mariti o dei padri.
«La crisi ha colpito in particolare due settori, l’industria e le costruzione, dove sono concentrati soprattutto uomini», spiega Linda Laura Sabbadini, direttrice del dipartimento delle Statistiche sociali e ambientali dell’Istat. «Per questo sono stati più colpiti. Non dobbiamo meravigliarci. Era successo così anche all’inizio degli anni Novanta. Diversamente, anche in questi anni di congiuntura sfavorevole, i servizi alle famiglie, dove lavorano principalmente le donne straniere, hanno continuato a crescere, perché i bisogni di assistenza per anziani non autosufficienti sono incomprimibili e le famiglie preferiscono tagliare su altre spese prima di privarsi di questi servizi».
Non solo. La tenuta dell’occupazione femminile si spiega anche con «l’aumento della permanenza nel lavoro delle donne italiane ultra 50enni, per effetto dell’innalzamento dell’età pensionabile. In sintesi, se per le giovani donne di 15-34 anni l’occupazione è diminuita, questa è stata più che compensata con la crescita delle straniere di 35-49 anni, concentrate soprattutto nei servizi alle famiglie, e delle donne italiane ultra 50enni. Inoltre, va sottolineato l’aumento dell’occupazione femminile nel 2012 nel Sud, risultato di nuove strategie familiari per fronteggiare la perdita di lavoro del partner: le donne di status sociale più basso hanno iniziato a cercare lavoro e lo hanno trovato nelle professioni non qualificate, sono le nuove “breadwinner” (i membri della famiglia il cui guadagno serve a sostentare gli altri membri, ndr)». Tuttavia, c’è da dire che «nel 2013 la situazione torna a peggiorare, e anche per le donne aumentano le disoccupate e le “scoraggiate”».
Ci sono poi molte lavoratrici a tutti gli effetti che sfuggono alle classifiche. La crisi economica provoca spesso un fenomeno di scoraggiamento nel gentil sesso, «che spesso entra nel mercato del lavoro accontentandosi di lavoretti in nero come domestica o estetista in casa», commenta Enrica Morlicchio, professoressa di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università Federico II di Napoli e autrice, tra i molti, dei volumi Poveri a chi (Giunti, 2013) e Familismo forzato (Carocci, 2005)
3. Il peggioramento della qualità del lavoro
Sebbene quindi la disparità di genere nei tassi di occupazione e disoccupazione sia diminuita e l’occupazione femminile abbia retto di più, il motivo è «il peggioramento della condizione degli uomini nel mercato del lavoro, piuttosto che un miglioramento per le donne. Inoltre, la tenuta dell’occupazione femminile si associa a un peggioramento della qualità del lavoro». Rispetto ai colleghi uomini, le donne firmano un numero maggiore di contratti di lavoro atipici (dipendenti a termine e collaboratori) e spesso svolgono un lavoro che richiede un titolo di studio meno elevato di quello posseduto (sovraistruzione). Negli anni della crisi i maschi sovraistruiti in Italia aumentano dal 16,8% del 2008 al 19% del 2012 (più 2,2 per cento). Numeri inferiori per le donne, che, pur presentando una condizione comunque peggiore di quella maschile, passano da una percentuale di sovraistruzione di 18,2 punti percentuali nel 2008 a una di 19,9 punti nel 2012. Più 1,7 per cento.
Ad accompagnare la crescita dell’occupazione femminile è stata però, in Italia come negli altri Paesi, soprattutto la diffusione del lavoro a tempo parziale. Dal 1993 in poi anche nel nostro Paese l’aumento del lavoro femminile è legato alla diffusione dei contratti part time, «tanto che dal 2004 al 2012 tutti i 700mila nuovi posti di lavoro per le donne sono part time», spiegano Reyneri e Pintaldi. Ma da quando la crisi si è fatta più grave il part time ha avuto ancora più successo. Non per una maggiore propensione alla conciliazione lavoro-famiglia dei datori di lavoro, quanto per il comportamento delle imprese che tendono a utilizzare sempre più rapporti di lavoro a orario e costo ridotti. Si tratta del cosiddetto part time involontario, che interessa quelle donne che vorrebbero ma non sono riuscite a trovare un lavoro a tempo pieno. La percentuale di part timer involontarie passa dal 38% del 2008 fino a superare il 54% nel 2012. Un fenomeno che accomuna l’Italia solo ai Paesi più duramente colpiti dalla crisi: Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo.
«La bassa valorizzazione delle competenze e la segregazione occupazionale che caratterizza il lavoro femminile sono elementi che concorrono a spiegare la disparità salariale: le donne in media presentano una retribuzione mensile inferiore di circa il 20% a quella degli uomini», spiega Sabbadini. La crisi tuttavia ha portato a un maggiore livellamento. E non per uno spostamento verso l’alto degli stipendi femminili, ma per un peggioramento di quelli maschili. Se si considerano i dati diffusi da Bankitalia con il rapporti sul reddito familiare nel 2008 e nel 2012, si nota come il reddito da lavoro dipendente è diminuito dello 0,74% per gli uomini (18.031/17.896) e dello 0,54% per le donne (17.896/14.129).
Le donne, insomma, lavorano di più, ma lo fanno in condizioni peggiori e per stipendi bassi. E in un Paese che non investe nelle conciliazione lavoro-famiglia, alcuni bisogni come la cura dei bambini o degli anziani – tradizionalmente a carico delle donne nel nostro Paese (il 71,9% delle ore dedicate al lavoro familiare è a carico delle donne) – rischiano di restare scoperti.
4. Le differenze tra Nord e Sud
Con la crisi si allarga la forbice tra il Nord e il Sud dell’Italia, anche nelle differenze di genere, «determinando l’incremento di grave deprivazione e povertà assoluta». Il divario nella partecipazione al mercato del lavoro si amplia di anno in anno. Nonostante nel Meridione siano emersi segnali importanti di riattivazione delle donne di basso status sociale nel momento in cui le famiglie hanno perso il lavoro, l’incremento cospicuo delle donne nel mercato del lavoro è concentrato al Centro Nord, dove pure molte donne meridionali si sono spostate per lavorare. Al Sud, il tasso di occupazione femminile è rimasto per lo più costante, intorno al 30 per cento. «Il tasso di occupazione maschile nel Mezzogiorno è ormai inferiore a quello femminile al Nord», commenta David Benassi, professore del dipartimento di Sociologia e Ricerche sociali dell’Università Bicocca di Milano.
«Nelle regioni meridionali lavora meno della metà della popolazione in età attiva, con una elevata disuguaglianza di genere: tra le donne meridionali solo tre su dieci sono occupate. Inoltre, nel Mezzogiorno è molto più elevata la quota sia di disoccupati sia di individui disponibili a lavorare ma che non hanno cercato lavoro nelle ultime quattro settimane – condizione per essere classificato come disoccupati – soprattutto perché “scoraggiati”. Il tasso di disoccupazione è più del doppio in confronto al Nord, e quasi il doppio rispetto al Centro», spiega Sabbadini. Non solo: «Il tasso di mancata partecipazione, che tiene conto anche degli inattivi disponibili a lavorare, evidenzia ancora di più la difficoltà a trovare lavoro nelle regioni meridionali: nella media dei primi tre trimestri del 2013 l’indicatore passa dal 13% del Nord e 17,6% del Centro, al 36,4% del Mezzogiorno. La necessità di sviluppo di politiche di coesione sociale e territoriale sta diventando sempre più urgente. La “crisi sociale” è profonda e durerà più di quella economica.».
5. Le tre fasi della crisi
«Siamo ormai entrati nella terza fase della crisi economica», spiega Chiara Saraceno, ex docente in pensione di Sociologia della Famiglia all’Università di Torino ed esperta di povertà. «I primi ad essere colpiti, in quella che possiamo definire la “prima fase”, tra 2008 e 2009, sono stati gli uomini, perché maggiormente impiegati nel settore inizialmente più colpito, l’industria. Si è passati poi alla seconda fase, che ha coinvolto i servizi. E qui sono state le donne a essere colpite. Infine la terza, quella attuale, caratterizzata da un aumento delle donne che si presentano sul mercato del lavoro, svolgendo anche impieghi che prima non avrebbero accettato ma spinte a farlo dalla perdita di occupazione del marito».
La crisi non colpisce le donne solo in Italia, ma in tutto l’Occidente in crisi. «La linea che separa la classe media e i working poor dalla povertà assoluta si è fatta più sfumata», scrive Maria Shriver in un report sulla povertà femminile realizzato con il Center for American Progress. Sono le donne, soprattutto le madri single e con bassi livelli di istruzione, che ingrossano oggi le fila della vulnerabilità economica verso la povertà. «Il problema più urgente», scrive Stephanie Coontz sul New York Times, «non è il soffitto di cristallo. Ma il pavimento che sprofonda. Dunque non avrebbe più senso focalizzarsi su politiche economiche di genere visto che quelle neutrali sono sempre state basate solo su un modello maschile?»