Nel 1930, quando il mondo stava soffrendo un per “forte attacco di pessimismo” John Maynard Keynes scrisse un saggio molto ottimista intitolato “le possibilità economiche per i nostri nipoti”, immaginandosi una via di mezzo fra una rivoluzione e una stagnazione che, in ultima analisi, avrebbe reso i nipoti più ricchi dei nonni. Ma il percorso sarebbe stato pericoloso.
Una delle preoccupazioni di Keynes era “la nuova malattia: la disoccupazione tecnologica, causata dalle diverse innovazioni che ci permettono di economizzare l’utilizzo della forsa lavoro ad una velocità più elevata rispetto alla nostra capacità di trovare nuovi usi per la forza lavoro”. I suoi lettori, scriveva Keynes, forse non avevano mai sentito parlare di questo problema, ma sicuramente in futuro se ne sarebbe discusso non poco.
In realtà non se ne è discusso granché. Oggi la maggior parte degli economisti concordano che non è una questione di cui preoccuparsi troppo. Aumentando la produttività, dicono, qualsiasi automazione che economizza l’utilizzo della forza lavoro contribuirà ad aumentare il reddito. Questo creerà domanda per prodotti e servizi, che a sua volta creerà lavoro per coloro che lo avevano perso a causa dell’avvento della tecnologia. A pensare diversamente si rischia di essere bollati come Luddisti – i lavoratori che, nel XIX secolo, distruggevano i macchinari colpevoli di avergli rubavato il lavoro.
Per gran parte del XX secolo, coloro che hanno sostenuto che la tecnologia ha creato lavoro e benessere hanno avuto la meglio nel dibattito pubblico. […] Tuttavia alcuni ora temono che l’era dell’automazione potrebbe avere degli esiti diversi da quelli previsti. Innanzitutto, nei paesi sviluppati, la situazione sul mercato del lavoro è tutt’altro che rosea. In sostanza, si osserva che, aggiustando per il costo della vita, i salari di un lavoratore medio sono stagnanti. […] Recenti ricerche suggeriscono che questo accade perché sostituire la forza lavoro con il capitale, tramite processi automatizzati, sta diventando sempre più conveniente, di conseguenza, a partire dagli anni ’80, i proprietari di capitale si sono accaparrati una fetta sempre maggiore del reddito mondiale, mentre la quota che va ai lavoratori è diminuita.
Infatti, anche nei paesi relativamente egalitari, come la Svezia, la disuguaglianza fra i lavoratori è aumentata notevolmente; la quota che finisce nelle mani dei più ricchi è in aumento. Per coloro che non fanno parte dell’élite, sostiene David Graeber, antropologo presso la London School of Economics, molti dei lavori moderni sono lavori “idioti” che non offrono stimoli, di medio-basso livello che costringono a stare di fronte ad uno schermo ed hanno l’unica funzione di tenere occupati quei lavoratori di cui l’economia non ha più alcun bisogno. Mantenere questo tipo di occupazione non è una scelta economica, ma una scelta delle classi dirigenti al fine di mantere il controllo sulle vite degli altri.
Sia quel che sia, in ogni caso questi lavori monotoni potrebbero presto trasformarsi in disoccupazione.