I baffi si sono trasformati in barba. E la chitarra in pianoforte. Del Dario Brunori dei volumi uno e due sono rimaste solo poche certezze: gli occhiali da hipster innanzitutto, le sue battute da giullare, e poi le vocali aperte, che non nascondono le sue origini calabresi. Tutto in effetti è partito da Guardia Piemontese – che si chiama così ma si trova in provincia di Cosenza – il paese affacciato sul mare che ha dato i natali alla ormai generazionale Guardia ‘82. E ora lo troviamo nel nuovo Cammino di Santiago in taxi, in uscita il 4 febbraio, che in copertina porta il suo faccione barbuto con qualche chilo in più. Perché in fondo, per dirla tutta, la Brunori sas non è cambiata. È solo cresciuta. Lui, Dario, resta il frontman e il titolare della ditta. I musicisti sono sempre quelli bravi che avevamo sentito prima, dagli archi ai fiati. Ora però si sono aggiunti nuovi suoni, e un direttore di produzione, Taketo Gohara, già “mago dei suoni” di gente come Vinicio Capossela, Baustelle e Afterhours.
E Dario, con la falsa modestia che lo contraddistingue, lo dice: «Questo è uno dei migliori dischi della storia internazionale». Un disco «sentimentale, introspettivo», lo definisce. Nato «da un periodo in cui ho cercato di riflettere su quello che mi stava accadendo. Un successo arrivato in età abbastanza avanzata che mi ha un po’ travolto, anche emotivamente». Tutto questo è finito nel disco, non senza uno sguardo ironico verso quello che gli accade intorno. «Anche perché se no sarebbe stato di una noia mortale». E non sarebbe stato un disco della Brunori sas, aggiungiamo noi.
Che poi, per registrarlo, Dario, pigro com’è, non s’è spostato molto dalle zone in cui è nato e vive (la sua casa si trova a San Fili, comune di 2mila anime alle porte di Cosenza, che lui da bravo bohemien de’ noantri ha definito la Parigi del Sud, tanto per darsi un tono). Gli undici brani sono stati tutti confezionati nella chiesa («consacrata», ci tiene a precisare, «anche se il prete non s’è mai visto») di un convento di cappuccini a Belmonte Calabro, dove Dario ha portato in ritiro tutta la sua band. Due settimane di «musica e cibo».
E in quindici giorni può accadere davvero tutto. Anche che tua madre (Mammarella sas, ex maestra di canto), da buona calabrese decida di venirti a trovare per cucinare «perché ti vede sciupato», e che alla fine la sua voce finisca nella registrazione di diverse canzoni (Santo morto, Mambo reazionario).
La scelta del luogo non è stata casuale. «Volevamo fare un disco che avesse una sua personalità, quindi la scelta del luogo era importante rispetto all’idea di uno studio. Ma volevamo anche che non fosse un vero studio, che fosse un posto che non si portasse dietro la parte matematica dello studio. Volevo che potessimo suonare come se fossimo in sala prove, senza il pensiero fisso “sto registrando, sto registrando, sto registrando…”. In questo modo ci siamo dimenticati che stavamo registrando».
Merito anche, forse, di Taketo Gohara, che ha preso il posto che era stato di Dario nella produzione artistica dei primi due dischi. «In un delirio di onnipotenza che mi portava a voler avere il controllo su tutto ma mi creava anche molte ansie». Il risultato è un «sound bello a sentirsi ma comunque vero, con due piani: quello cantautorale, con i pezzi più intimi piano e voce, e quello della band, con pezzi pensati proprio come session». Perché per questo Volume 3: Cammino di Santiago in taxi («Voglio arrivare al volume 111, però anche con dei greates hits, non posso garantire che siano tutti inediti»), il nostro cantautore ha deciso pure di cominciare a scrivere al piano: «Suonandolo senza padronanza può succedere ancora qualcosa che mi sorprende. Cosa che con la chitarra non accade quasi mai. Invece così magari metto male le mani e vengono fuori cose nuove».
Un cammino spirituale, ma in taxi, appunto. «Il titolo nasce da un aneddoto che mi è stato raccontato di una signora che ha deciso di fare il cammino di Santiago in taxi», racconta Dario. «Questa cosa mi aveva fatto sorridere inizialmente, ma anche riflettere, perché mi sembrava in qualche modo la metafora dei nostri tempi, metafora del cotto e mangiato, del desiderio di sapere tutto ma molto in maniera frammentaria. Dover essere sempre connessi a tutto, avere un’opinione su tutto, ma senza approfondire. E poi mi sono guardato dentro e mi sono reso conto che questo titolo descrivesse molto bene il periodo che aveva portato alla stesura dei brani perché anche per me era stato un periodo in cui cercavo delle risposte però anche in grande fretta. Volevo fare un percorso spirituale, artistico, di ricerca di risposte, ma sempre di fretta. Ho capito che anch’io ero su quel taxi insieme alla signora e a tante altre persone».
Perché negli ultimi tre anni la grande famiglia della Brunori sas, in sella al suo furgoncino, ha calcato le autostrade e i palchi di tutta Italia. Avanti e indietro. Un never ending tour, dopo l’uscita di Poveri Cristi nel 2011. Nel frattempo uno dei membri della band si è anche sposato (cerimonia officiata da Dario Brunori in persona) ed è diventato padre. Il disco è stato scritto tra la primavera e l’estate del 2013, dopo un periodo in cui, saturo di eventi e concerti, era necessario fermarsi. «C’è un punto in cui ti senti stanco e svieni. Arriva il punto in cui quello che di solito ti piace, smette di piacerti. Se salta una data sei felice, un po’ come a scuola. È quindi è evidente che in quei momenti ti devi fermare. Anche perché magari canti una canzone tua ma non ci sei più tanto dentro. Da una parte il pubblico ti aiuta, dall’altro però ti senti in colpa. A quel punto pensi che è solo il momento di fare una pausa».
E se la pausa è servita a partorire un disco come Il cammino di Santigo in taxi, ben vengano le pause. In sei mesi di “esoturismo”, tra veloci letture di Pascal, yoga («da principiante ho anche esagerato e mi sono beccato qualche acciacco»), danze Sufi «e anche il mago Dynamo», sono arrivati 11 brani. Tra cui un Mambo reazionario in cui convivono Fidel Castro, Che Guevara e Beyoncè; Kurt Cobain, che per il riferimento musicale («in Italia si creano santini intoccabili e qualunque cosa fai sbagli», dice lui) ha sollevato non poche, e non poco sterili, polemiche; Le quattro volte, dal titolo del film del regista calabrese Michelangelo Frammartino; Il Santo Morto che mette insieme un Padre e un pulcino accumunati dall’omonimia (Pio); il valzer finale Sol come sono sol e un Pornoromanzo che si rifà alla Lolita di Nabokov. Anche se, dice Dario, «confesso di non aver letto il libro».
Risultato del «mio essere in taxi, appunto», dice lui. Diviso com’è tra gli impegnati anni Settanta in cui è nato, e i frivoli anni Ottanta in cui è cresciuto. Spirituale e frettoloso. Capobanda di quella che alcuni chiamano già nouvelle vague dei cantautori italiani, con Antonio Di Martino, Dente, Zen Circus, che lui ha pure riunito qualche anno fa sullo stesso palco al teatro comunale Rendano di Cosenza. Eppure, dice, «una scuola non c’è, sono tutti progetti autonomi». Ora non resta che imparare i testi delle canzoni a memoria in attesa del tour, al via dal 6 marzo a Milano.