La campagna Detox di Greenpeace nasce tre anni fa, con l’intento di mostrare e denunciare l’impatto dell’industria tessile sulle risorse idriche globali. Secondo le analisi effettuate in questi anni dall’associazione ambientalista – con particolare attenzione al sud del mondo, soprattutto Cina, Indonesia e Messico, dove si trovano le grosse “città del tessile” – sarebbero numerosi gli impianti che riversano le sostanze chimiche, usate durante la fase di produzione, nelle acque dei fiumi, creando un pericolo per l’ambiente, gli animali e l’uomo. Pericolo che non si limita alla contaminazione delle risorse idriche e della fauna, ma che riguarda anche i vestiti e le scarpe che indossiamo ogni giorno. Anche gli indumenti, infatti, possono contenere sostanze tossiche pericolose per la salute, soprattutto quando si tratta di capi destinati ai bambini, più sensibili a inquinanti di questo tipo. Lo dimostrano due recenti studi di Greenpeace “Piccoli mostri nell’armadio” e “The King Is Naked” che denunciano la presenza di sostanze nocive negli indumenti per bambini, di note marche d’abbigliamento sia di largo consumo che di alta moda.
Le sostanze dannose utilizzate dalle industrie del tessile nelle varie fasi di produzione, dalla pittura dei tessuti al lavaggio e fino alla loro finitura, vengono riversate nelle acque direttamente dall’industria o al primo lavaggio dei capi di abbigliamento, anche se con un impatto molto minore. Per ciò inizialmente «abbiamo cominciato a ricostruire le filiere e ad analizzare quali erano i clienti e i brand che producevano presso queste industrie tessili» racconta a Linkiesta Chiara Campione, responsabile del progetto The Fashion Duel di Greenpeace Italia. «In seguito abbiamo fatto analizzare i capi di abbigliamento per bambini da laboratori specializzati, che hanno confermato la presenza di sostanze chimiche pericolose anche nei singoli indumenti».
Greenpeace ha testato 82 articoli per bambini (che comprendevano marche popolari come American Apparel, C&A, Disney, GAP, H&M, Primark, e Uniqlo, Adidas, LiNing, Nike, Puma, Burberry), acquistati tra maggio e giugno 2013 in 25 paesi, che risultavano prodotti in 12 paesi in prevalenza del sud del mondo. «In tutti i campioni è stata ricercata la presenza dei nonilfenoli etossilati (NPEs), che sono tra le sostanze più pericolose (tant’è che dovrebbero essere proibite in Europa dalla normativa che regolamenta l’uso delle sostanze tossiche); ma anche di composti organo-stannici e ftalati (nei capi che presentavano stampe al plastisol per cui vengono impiegate queste sostanze), composti perfluorurati (PFCs) (ricercati solo nei capi impermeabili perché utilizzati nel tessile per questo motivo), antimonio ma anche di composti organo-stannici e ftalati (nei capi che presentavano stampe al plastisol per cui vengono impiegate queste sostanze), composti perfluorurati (PFCs) (ricercati solo nei capi impermeabili perché utilizzati nel tessile per questo motivo) e antimonio».
Secondo il rapporto i nonilfenoli etossilati (NPEs) sono stati trovati in 50 prodotti su 82 analizzati, in concentrazioni che vanno da appena 1 mg/kg (il limite di rilevamento) fino a 17mila mg/kg. Gli Ftalati in 33 campioni su 35 analizzati, che presentavano stampe al plastisol. Due di questi campioni contenevano concentrazioni molto elevate di ftalati (una maglietta di Primark venduta in Germania conteneva l’ 11% di ftalati, mentre una tutina per bambini di American Apparel venduta negli Stati Uniti ne conteneva lo 0,6%), tali che non sarebbero consentiti dalla legislazione europea, che però non si applica agli indumenti, ai giocattoli e articoli per bambini. I composti perfluorati sono stati rilevati in ciascuno dei 15 articoli testati per il rilevamento di queste sostanze. Le concentrazioni di PFCs e PFOA ionici trovate in un costume Adidas erano molto più elevate del limite di 1 µg/m2 fissato dalla Norvegia nel 2014 e perfino da Adidas nella sua lista di sostanze proibite. Inifne l”antimonio è stato ritrovato in tutti e 36 gli articoli in cui è stato cercato (prodotti contenenti tessuti di poliestere al 100% oppure di poliestere e altre fibre) mentre i composti organo-stannici sono stati trovati in tre articoli con stampe al plastisol (sui 21 testati) e in tre calzature su cinque.
Non fa eccezione l’alta moda con marchi di lusso, tra cui Versace, Louis Vuitton e Dolce&Gabbana, i cui capi per bambini sono risultati positivi alla presenza di queste sostanze chimiche. Lo studio The King Is Naked rivela, infatti, che 16 dei 27 prodotti testati (59%) tra vestiti e calzature per bambini delle più famose aziende dell’Alta moda, sono anch’essi risultati positivi a sostanze tossiche. «Inoltre – spiega Chiara Campione – la concentrazione dei NPEs in capi etichettati come Made in Italy (otto sui 27 brand esaminati) fa venire il dubbio che questi potrebbero non essere stati prodotti interamente in Europa».
Il primo dato allarmante come sottolinea Chiara Campione e come si legge nel report “Piccoli mostri nell’armadio” e che nonostante si tratti di indumenti per bambini o neonati non vengono trattati con più attenzione e non ci sono differenze sostanziali in termini di concentrazione di sostanze tossiche rispetto ai capi per adulti. Nonostante i bambini siano più sensibili e suscettibili a determinate sostanze chimiche. Lo dimostra anche il fatto che alcune categorie di prodotti destinati ai più piccoli, come i saponi o le creme, seguono una normativa particolare o si applica il principio di precauzione, evitando di usare metalli pesanti, paraffine o altre sostanze chimiche. «Per il tessile però una normativa simile non esiste» precisa Campione. «Certo per tutte queste sostanze ci sono dei valori limite, ma la legge che li regolamenta (la Reach), vale per tutte le sostanze chimiche, non solo quelle usate dall’abbigliamento. Questi limiti di tolleranza però sono obsoleti. La normativa Reach è stata scritta venti anni fa quando tutta l’industria utilizzava le sostanze chimica in maniera indiscriminata, ed era necessario mettere un freno. Questo oggi non è più sufficiente, perché dalla letteratura scientifica sappiamo che determinate sostanze sono pericolose per l’ambiente e anche la salute. Soprattutto oggi sappiamo che esistono delle alternative a queste sostanze nocive».
Viene spontaneo chiedersi perché non fare uso di un’alternativa meno dannosa se esiste. Il problema ovviamente è che cambiare un processo industriale non è semplice, e richiede investimenti in innovazione e ricerca, e di conseguenza costi. Provare ad agire direttamente sulla normativa europea non serva a molto come conferma Chiara Campione, perché «il peso delle lobby delle industrie non è facile da gestire». È molto più semplice cambiare il sistema facendo pressione con campagne come quella attuata da Greenpeace e convincere un grande marchio presente ampiamente sul mercato e che in qualche modo “detta le regole”. «Se un brand come Nike o Adidas, che produce in tutte le aree dell’industria tessile del mondo in quantità elevata, decide di voler cambiare il sistema produttivo e utilizzare sostanze meno nocive e lo impone per contratto al proprio fornitore, a questo non resta che accettare o perdere un cliente importante. E se il sistema di produzione viene cambiato per una marchio poi lo si applica anche a tutti gli altri clienti: a quel punto non ha senso mantenere due sistemi differenti. È importante convincere questi grossi brand perché loro hanno il potere di influenzare il mercato e l’industria tessile».
Una piccola inversione di tendenza all’interno dell’industria chimica che serve per il tessile sembra esserci già stata. Diciannove grandi marche del settore tessile hanno aderito alla campagna di Greenpeace e si sono impegnati a eliminare queste sostanze nocive entro il 2020, con step successivi e pubblici che vengono pubblicati di continuo sui loro siti web. Il primo obiettivo è eliminare le sostanze più pericolose per ambiente e salute secondo la letteratura scientifica: «Chi si impegna con Detox deve, in lasso di tempo abbastanza breve di uno o un anno e mezza a seconda della grandezza della filiera, eliminare subito ftalati, nonilfenoli etossilati e perfluorurati, e sostituirli con altre sostanze più sostenibili e rispettose dell’ambiente; ed entro il 2020 eliminare completamente tutte le altre sostanze chimiche pericolose».
Per quanto riguarda i danni sulla salute Greenpeace non li ha testati direttamente sull’uomo ma sulla fauna acquatica, da cui è emerso che possono interferire con gli ormoni e avere ripercussioni sul sistema riproduttivo. «L’Associazione Tessile e Salute l’anno scorso ha fatto uno studio sulla popolazioni italiana – conclude Chiara Campione – quello che è emerso è che il 7% delle malattie dermatologiche di cui soffrono gli italiani, sono causate da sostanze tossiche presenti nei vestiti che indossiamo. E non si tratta solo di problemi dermatologici meno gravi, come dermatiti da contatto e reazioni allergiche alle singole sostanze, ma anche di patologie con un rischio di degenerare in malattie cancerose».