Tenersi stretto il lavoro, finché si può. Questo è il consiglio dei ricercatori di Oxford, secondo i quali, nei prossimi vent’anni il 47% delle professioni oggi esistenti potrebbe passare nelle mani delle macchine. Computer in grado di fare diagnosi complesse e robot capaci di apprendere dalle azioni umane. In futuro, il bersaglio dello sviluppo tecnologico non saranno più solo i compiti routinari e ripetitivi. A salvarsi, saranno le mansioni basate su intelligenza creativa e sociale, qualità – al momento – ancora insostituibili. Un vero e proprio tornado, come ben raffigurato dalla copertina dell’Economist che, riprendendo il rapporto in questione, spiega come ostacolare il progresso sia però inutile e dannoso. Chi non abbraccia il cambiamento resterà indietro – così come i luddisti agli inizi dell’Ottocento – perché altri, i competitor, non aspetteranno.
Secondo il settimanale londinese, l’impatto della tecnologia “distruttrice” (di posti di lavoro) si farà sentire eccome, almeno nel breve periodo. Il risultato è la crisi occupazionale di interi settori economici e la perdita di un impiego dei cosiddetti “white collar” (i colletti bianchi), soggetti fino a pochi anni fa ritenuti “invulnerabili”. A tremare è soprattutto il settore pubblico che, più del privato, è “tradizionalmente” restio a inserire processi di automazione e sistemi informatici all’avanguardia.
Come arrestare nel minor tempo possibile questa ripresa senza occupazione (jobless recovery)? Innanzi tutto serve guardare ai mercati in crescita e saper riconoscere nuove figure professionali. Nel suo editoriale, l’Economist mostra come negli ultimi anni, grazie a strumenti come le piattaforme online, i social network e il cloud computing, siano letteralmente esplose le startup con nuove mansioni. In sostanza, dice l’articolo, “abbiamo meno segretarie e più web designer”.
È la grande frontiera del digitale e soprattutto dell’high tech. Nel recente rapporto (dati Google) High Technology Employment in the European Union pubblicato su Linkiesta, vengono sottolineati le grandi potenzialità occupazionali di questo settore. L’high-tech, è scritto, “è arrivato a rappresentare il 10% dell’occupazione totale nell’Unione europea, crescendo esponenzialmente” (in Italia ha registrato un incremento del 28,5% dal 2000 al 2011). Non solo: investire nell’high-tech vorrebbe dire facilitare la creazione di posti di lavoro anche in settori produttivi affini.
Per abbracciare il cambiamento e non subirlo, come sempre accade, serve partire dalle fondamenta, cioè dalla scuola. Negli anni della rivoluzione industriale le aule scolastiche servirono per educare i giovani ai nuovi mestieri; oggi, il sistema formativo del nostro Paese sembra essere rimasto indietro. È necessario cambiare e percorrere altre strade. Secondo l’Economist, i ragazzi dovranno saper apprendere sempre meno meccanicamente per trasformarsi in pensatori critici. Come? Incoraggiando la creatività e lo studio dei computer durante le ore di lezione.
A pensarla così è nientedimeno che la personalità più influente del pianeta, Barack Obama. Il presidente degli Stati Uniti in persona ha recentemente fatto da testimone, insieme ad altre numerose star dello spettacolo e dello sport, alla campagna per l’alfabetizzazione digitale dei giovani. In un video, Obama sprona tutti i ragazzi a non comprare un nuovo videogioco, ma a realizzarne uno. A non scaricare l’ultima app, ma a disegnarla.
La campagna in questione si chiama code.org ed è supportata da tutti i leader mondiali dell’innovazione tecnologica come Microsoft, Google, Apple, Yahoo, Amazon, Dropbox, EA, Zynga, Skype Twitter e Facebook, i quali, durante la recente Computer science education week, hanno dichiarato che il digitale porterà 150mila nuovi posti di lavoro ogni anno, fino al 2020.
In America sembrano essere tutti d’accordo e il messaggio lanciato dalla più alta carica politica è chiaro: imparare a programmare è un bene per la nazione stessa.
E l’Italia cosa ne pensa? Stando alle dichiarazioni di pochi giorni fa del ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Maria Chiara Carrozza, la tecnologia digitale non sarebbe una vera e propria materia, e per questo non meritevole di essere inserita (nemmeno per un’ora) nell’orario didattico. La nostra politica si dimostra quindi recidiva nel continuare a pensare che la programmazione non sia una disciplina ma un’attività trasversale e un mezzo per apprendere altre materie (quelle sì, meritevoli).
Steve Jobs diceva: “Ognuno dovrebbe imparare come si programma un computer, perché ti insegna come pensare”. Forse è arrivato il momento di ascoltarlo.