Oggi mia figlia mi ha detto che sono brutta. Mi ha detto che non ricorda l’ultima volta che m’ha vista ridere. L’ho odiata. Anche se ha sei anni e lo so che non bisognerebbe odiare una bambina di sei anni. Però, per un attimo, l’ho odiata. Perché non sa, perché non capisce, perché è una bambina e io la obbligherò a crescere in fretta. Più in fretta di quanto avrei voluto. Più in fretta di quanto sarebbe stato giusto.
L’ho odiata perché ha ragione, sono brutta. L’ho capito guardandomi allo specchio, che non mi ci guardavo da secoli. L’ho capito davanti a queste occhiaie, davanti a queste rughe, davanti a questi capelli corti e radi, che non ricordano neanche un po’ i ricci che avevo prima, quando ero bella, quando la vita era più facile, o era semplicemente vita, naturale da vivere.
Sorridevo un sacco, ai tempi. Suo padre s’innamorò di me che avevo solo 22 anni ed ero così radiosa, mi chiamava “Luce”, mi chiamava. Io invece ero innamorata di lui perché era bellissimo e mi faceva ridere. E veniva da lontano. E ascoltava gli Smiths. È per lui se oggi sono qui. È perché decisi di seguirlo. Decisi che potevo lasciare la mia terra, la mia famiglia, i miei amici. Potevo lasciare il mare per le montagne. Decisi che tanto il Nordest era ricco, avrei trovato lavoro anche io e avremmo vissuto meglio. E anche a mia figlia avrei dato più possibilità. Anche a mia figlia.
È per Carlo se oggi sono qui. Carlo, che ora non c’è. È fuori dallo stabilimento con Franco, Alessandro, Luca. Son lì tutti, a presidiare. Io non son potuta andare, dovevo restare qui, con Martina che ora dorme, che ha fatto i compiti da sola, che domani andrà a scuola come se nulla fosse. Martina che oggi mi ha detto che sono brutta, che non rido più. Martina che ha ragione. Dovrei ridere. Dovrei darle almeno un’impressione di serenità. Dovrei essere migliore ma è impossibile, lo giuro che è impossibile, essere migliore quando tutto va in merda.
Il 40%, hanno detto. Il 40% in meno. Come si fa a ridere se ti dicono che percepirai il 40% in meno? E poi? Tra due anni chiudiamo? Non sappiamo. Non sappiamo nulla di cosa sarà: di me, di Carlo, di Martina e di tutti noi. Da milleequattro a ottocento euro al mese. Un insulto. La Polonia, la Polonia fa risparmiare. Ottocento euro, come si fa? Come si fa a ridere? Lavoriamo lì, io e Carlo. Operai Electrolux, io e Carlo. E c’è Martina, sei anni e una vita da costruirle. Ottocento euro, e la chiusura, e la Polonia, e la globalizzazione, e la delocalizzazione, e il mercato globale, e il cuneo fiscale. Che ti vien voglia di prendere una spranga e andare a picchiar duro, in mezzo alla strada. Ti vien voglia di fare male, per non sentire questa disperazione, per coprire i singhiozzi con le urla.
Il fatto è che a mia figlia dovrei dare speranza, fiducia, sicurezza. E invece faccio fatica a trattenere le lacrime. Non deve vedermi piangere, non deve. Ma mica è scema. Ha sei anni ma mica è scema, Martina. Martina lo sa che mentre mi racconta della maestra Annamaria, io penso ad altro. Penso a come pagheremo la casa. Penso all’umanità che non sento più. Penso all’annientamento di questa popolazione, all’esercito di disgraziati che siamo diventati. Penso che sono stanca e che ho paura come non ne ho avuta mai nella vita. Penso che l’indifferenza sia ultra-violenza. Penso alle storie che nessuno racconterà, le storie di tutti noi, che tra dieci giorni nessuno saprà, nessuno ricorderà. Carne da prima serata per una settimana e via, non esisteremo più, esattamente come non esistono più i nostri diritti, esattamente come non esiste più uno Stato di cui sentirsi cittadini, esattamente come non esisterà più questa fabbrica, che ci mette spalle al muro e apre il mitragliatore, che ha mangiato la polpa e ora sputa via le ossa.
Questo siamo: gli scarti, i residui di un commensale grasso che va via sazio, col bilancio in attivo, senza nemmeno pagare il conto a questo Paese, a questa comunità. Storie già sentite. Vite già vissute. Già.
Devo fare come Carlo. Lui è più bravo di me. Lui usa la rabbia per sentirsi vivo. Per combattere.
Devo sorridere a mia figlia. Anche se tutto va in merda. Anche se ho paura come non ne avevo avuta mai nella vita. Anche se in questo specchio non mi riconosco. Anche se io non mi sento più io. E la mia vita non mi sembra più la mia vita.
Devo sorriderle. Devo abbracciarla. Devo darle qualcosa che non ho: l’illusione che tutto andrà a posto. Che in questo Paese si possa vivere. L’illusione che tutto, in qualche maniera, si sistemerà. Anche se non ci credo più. Anche se non ci credo neanche un po’. E questo, purtroppo, Martina lo sa.