In questi giorni, di fronte ad alcune dichiarazioni di certi esponenti del Movimento 5 stelle, ho pensato molto a Palombella Rossa e alla cinquina che Moretti stampa sulla guancia della Valentini, urlandole che le parole sono importanti.
Sono d’accordo con Moretti: le parole sono importanti e il linguaggio modula la nostra sensibilità, è lo strumento attraverso il quale esprimiamo e interpretiamo la cultura che viviamo. Bisogna saperlo usare e bisogna redarguire chi non è in grado di comprenderne l’importanza. Non fosse altro perché la brutalità verbale è una cattiva abitudine che spesso diventa incubatrice di violenze peggiori.
Trovo, tuttavia, che sorga un problema nel momento in cui la riflessione sul linguaggio diventa un espediente per distogliere l’attenzione dalle urgenze politiche e sociali del Paese, balzando in cima all’agenda mediatica italiana e venandola di quel retrogusto radical chic che tanto amiamo.
Mi spiego meglio. Sono una feticista delle parole e del linguaggio, inteso in senso lato, in tutte le sue manifestazioni, anche quelle eccessive, quelle provocatorie, quelle scurrili. Non ho nulla contro le parolacce, ad esempio. E non ho neanche nulla contro le bestemmie, se posso dirlo, in questo Stato vetero-borghese di matrice vaticana. Il problema che può sorgere, semmai, è quello della pertinenza. Come dire: se mentre chiacchieriamo bevendo una birra ti parte un cristone, io non mi scandalizzo, figurati. Ma se entri in Chiesa nel bel mezzo di una messa e inizi a urlare “Putt… la Mad…”, embé, forse lì un problema si pone, perché violi il rispetto per chi ci crede, perché dimostri poco buon senso e risulti talmente fuori luogo da non esprimere altro che idiozia. Ecco, nella stessa misura, bisognerebbe evitare di dire in Parlamento alle deputate del Pd che sono delle pompinare, anche se magari lo sono, delle pompinare, dove con questo termine non si intendono favolose donne abili nell’arte amatoria orale, quanto piuttosto malefemmine che dispensano fellatio con più solerzia che se facessero volantinaggio, al fine ultimo di ottenere benefici economici o professionali con buona pace della tanto millantata meritocrazia.
Ora, ovviamente, un uomo intelligente – di qualunque orientamento politico – capisce queste norme basilari del vivere condiviso ed evita di dare sfogo a un’esternazione offensiva e fine a se stessa, che nulla rivendica se non la facoltà di insultare liberamente una donna. Lo evita innanzitutto per il proprio decoro umano e, non meno importante, per la credibilità del movimento che rappresenta. Appunto. Un uomo intelligente. Così come un uomo degno di tal nome eviterebbe di dire che non stuprerebbe la Boldrini perché non è fregna abbastanza. Un uomo degno di tal nome capirebbe che una simile affermazione, su Twitter (non al bar con gli amici, su Twitter), è peggiore persino di “Quella culona inchiavabile della Merkel”. Ora, io direi che su questo siamo tutti d’accordo.
Il punto su cui vorrei riflettere però è un altro. Ovvero che mentre tutto l’ambaradan succedeva, io mi sono chiesta: “Vagina, ti senti tu offesa da queste dichiarazioni? Da questi avvenimenti?”.
No. Io non mi sento offesa. Non più di quanto mi sia sentita offesa milioni di altre volte negli ultimi 15 anni, perché sostenere che la barbarie (o come direbbe Enrico Letta “barbariA”) culturale abbia il copyright di certi grillini, mi pare un po’ una minchiata.
Io mi sono sentita offesa in molte altre occasioni.
Mi sono sentita offesa quando al ministero per le Pari Opportunità ci hanno messo Mara Carfagna.
Mi sono sentita offesa da “Se sei un cesso vai al call center, se sei figa vai a Palazzo Grazioli”.
Mi sono sentita offesa ogni volta che ho visto qualunque parte del corpo di Nicole Minetti sui giornali.
Mi sono sentita offesa quando i leghisti hanno regalato le stampelle a Rita Levi Montalcini.
Mi sono sentita offesa quando “la Kyenge assomiglia a un orango”.
Mi sono sentita offesa quando “Rosi Bindi, lei è più bella che intelligente”.
Mi sono sentita offesa da “Lei viene? Ma quante volte viene? Una volta sola?”.
Mi sono sentita offesa dal tunnel per i neutrini della Gelmini, ministro dell’Istruzione, mentre le mie amiche laureate con 110 e lode in astrofisica, ricercatrici universitarie, guadagnavano 700 euro al mese.
Mi sono sentita offesa da “Le consiglio di sposare un uomo ricco”.
Mi sono sentita offesa ogni volta che ho sentito fidanzati, padri e mariti dire frasi come: “Lui è un grande, alla fine quello che fa lui vorrebbero farlo tutti”.
Mi sono sentita offesa dalle bocche rifatte, dalle trasmissioni di Barbara D’Urso, dall’estetica della bruttezza e dalla cultura dell’ignoranza.
E ancora mi sento offesa per tutte le donne che devono scegliere tra la possibilità di conservare un lavoro oppure quella di avere un figlio. Mi sento offesa quando scopro che le ragazzine si vendono per una ricarica telefonica. Mi sento offesa e dilaniata ogni volta che una donna viene massacrata dal proprio fidanzato e ogni volta che una disgraziata viene bruciata viva dal marito, questo sì, questo mi sconvolge, non il fatto che qualcuno possa scompigliare per un secondo la messa in piega della Boldrini.
E a proposito della Boldrini, qualcuno le spieghi – forse non lo sa – che le donne online vengono sempre, costantemente, insultate dagli uomini. Che non succede solo a lei. Che esistono gruppi su Facebook ultraviolenti contro, cazzonesò, Selvaggia Lucarelli. E stento a credere che tutti gli haters che popolano il web, che sono la fogna del web, ecco io stento a credere che siano solo ed esclusivamente lettori del blog di Beppe Grillo.
La violenza contro le donne, verbale e non, online e offline, pare sia un trend. Fa schifo? Sì.
Allora, se di questo vogliamo parlare, che parlarne è giusto, parliamone seriamente. Discutiamo pure quanto voltete dell’immagine della donna in questo Paese e del cancro culturale che ha ammalato gli uomini italiani o, per meglio dire, parte di essi.
Attenzione, però. Non confondiamo le carte in tavola. Non strumentalizziamo la violenza contro le donne per demonizzare uno specifico movimento politico. Che poi il pentapartito sia ricettacolo di ignoranza, populismo, demagogia, anti-democraticità, rozzaggine, se ne può parlare anche fino a domattina. Ma, in primis, non è che Calderoli fosse un Baronetto della Regina Elisabetta. In secondo luogo, c’è dell’altro e io non voglio distogliere l’attenzione dal resto: dalla libertà che è stata negata di esprimere disaccordo, dal valore sacro – che è stato violato – di praticare opposizione, in un Paese che si definisce democratico.
I grillini sono in questo momento, a torto o a ragione, gli unici ribelli che abbiamo. Certo, forse non sono quelli che avremmo voluto. Forse avremmo preferito dei sovversivi diversi, dei pirati e dei signori alla Julio Iglesias, dei moderni Che Guevara misto Robin Hood che difendessero la Costituzione e incarnassero la disperazione di questa popolazione, ma con grande compostezza, invidiabile applombe, chiedendo “permesso” e “per favore”, la mi scusi, potrei per cortesia segnalarle invano che non sono propriamente d’accordo con il suo operato, sebbene lei continuerà a fare gli stracazzi suoi ignorandomi impunemente?
Il fatto, puro e semplice, è che la democrazia finisce nel momento in cui si nega la possibilità di esprimere dissenso. E non importa che quel dissenso sia giusto o sbagliato. Se viviamo in democrazia, le istanze si esprimono. Per definizione.
Nel frattempo, se possibile, evitate di strumentalizzarci per marcare una linea artificiale e artificiosa tra “buoni” e “cattivi”. Il tutto mentre un questore sgomita sulla faccia di una deputata dei 5 stelle ma, ehi, in quel caso, ha fatto bene: gli eversivi si trattano col bastone, dissero i democratici.
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