Un costo del lavoro gravato da un prelievo fiscale e contributivo eccessivo; un livello troppo basso di produttività; un difficile sistema delle relazioni industriali, della legislazione del lavoro, l’inefficienza dei servizi di formazione e collocamento nel mercato del lavoro. Sono questi alcuni dei punti dolenti che caratterizzano la crisi del nostro sistema-Paese, incapace di allinearsi agli altri Paesi e rendendolo sempre meno attrattivo per gli investimenti stranieri al di là e nonostante i numerosi tentativi di ritoccare qui e la – il fallimento della riforma Fornero è sotto gli occhi di tutti oramai – il nostro sistema del lavoro.
Capire che lo scenario completamente mutato è già un passo fondamentale: la globalizzazione ha spazzato via le vecchie regole e l’Italia si trova a operare in un mercato molto saturo con numerosi competitors. Il costo del lavoro torna così alla ribalta, diventando quindi un problema pressochè insolubile: le imprese da noi non investono o delocalizzano.
Sono proprio di questi giorni le vicende Electrolux dove è stato presentato un piano per ridurre il costo del lavoro e mantenere la produzione in Italia anziché trasferirla in Polonia ed in Ungheria: il piano prevede la riduzione strutturale dell’orario di lavoro (da 8 a 6 ore), la sospensione dei premi legati alla produttività, redditività ed efficienza, sospensione del pagamento delle festività, riduzione dei permessi sindacali, riorganizzazione delle pause sull’orario a 6 ore, il congelamento degli scatti di anzianità e anche degli eventuali incrementi legati alla contrattazione nazionale. Questa vicenda non coinvolge solo la società svedese ma è paradigmatica per l’intero Paese. In questo caso però non servono solo gli strumenti normativi, ci vuole quel salto culturale che imporrebbe alle parti sociali di trovare intese differenti, sperimentare coraggiosamente soluzioni innovative.
È lungo l’elenco di grandi gruppi internazionali che, senza negoziare con sindacati e territorio, hanno deciso in autonomia di chiudere gli stabilimenti nel nostro paese per de-localizzare altrove dove il costo del lavoro è più competitivo. La riduzione del cuneo fiscale e contributivo, un codice semplificato del lavoro, la sperimentazione del contratto di ricollocazione per riconvertire e reinserire i disoccupati nel tessuto produttivo, sono sicuramente misure che potranno fare la differenza a medio lungo termine. Sono queste, infatti, le proposte avanzate dal neo segretario del Pd Matteo Renzi, con il suo attesissimo Jobs Act. L’idea del contratto unico a tempo indeterminato a tutele crescenti, forse potrà portare anche qualche beneficio – vedremo come concretamente sarà strutturato – ma occorrerà del tempo e i risultati forse si vedranno fra mesi.
E nel frattempo che cosa si può fare? Che strumenti concreti possono essere messi in campo dal diritto del lavoro? In questo quadro, un ruolo fondamentale può essere svolto dai cd. “accordi di prossimità” introdotti per la prima volta in Italia dall’art. 8 della legge 148 del 2011. In forza di tale previsione e con la ratio di favorire lo sviluppo del lavoro, la salvaguardia dell’occupazione ed il rilancio della produttività, la norma consente ai contratti aziendali o territoriali di derogare non solo alla disciplina del contratto collettivo nazionale ma soprattutto alla disciplina di legge in fondamentali materie fino ad oggi considerate inderogabili e tradizionalmente sottratte alla regolamentazione pattizia (quali l’organizzazione del lavoro, orari di lavoro, la classificazione del personale, la disciplina dei licenziamenti e così via), anche in senso peggiorativo dei diritti del lavoratore. Infatti, il citato articolo 8, opportunamente denominato “sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità”, rappresenta un vero punto di svolta nella regolamentazione dei rapporti di lavoro, poiché affida ai soggetti più “vicini” alle parti interessate, ossia alle organizzazioni sindacali aziendali e/o territoriali il compito di modulare ed adattare, attraverso intese idonee a derogare le norme di legge e del contratto collettivo, le tutele dei lavoratori negli specifici contesti produttivi e in relazione alle reali esigenze delle aziende.
È questa ad esempio la strada prescelta dalla Unione Industriale di Pordenone che ha recentemente proposto alle parti sociali proprio la stipulazione di un accordo “di prossimità” territoriale che prevede deroghe importanti alla normativa del lavoro vigente, con il nobile scopo di provare a bloccare l’emorragia delle aziende del territorio, eventualmente attraendone di nuove, laddove possibile. In conclusione, con i contratti di prossimità il legislatore ha inteso offrire alle parti sociali lo strumento per meglio delineare la disciplina dei rapporti di lavoro nello specifico contesto aziendale, con particolare riferimento alle esigenze produttive. Per darvi concreta attuazione occorre mai come oggi una assunzione di responsabilità da parte di tutti, per cogliere l’opportunità di mutare ciò che si può effettivamente modificare. Solo così si potrà provare a dare una risposta concreta alla crisi che stiamo affrontando.
* Founding Partner studio legale Lablaw