Domenica 23 febbraio, alle 8 di mattina, rispondendo a un mio tweet che lo sollecitava, Matteo Renzi ha promesso che mi e ci avrebbe stupito sui temi dell’agenda digitale. Colgo in questi giorni molte e importanti novità nel linguaggio e nell’approccio di Renzi. Attendo dunque di essere stupito. Ma c’è un altro tema che va urgentemente affrontato se si vogliono rendere attuabili le riforme necessarie per l’Italia. Le riforme si muovono sulle gambe delle donne e degli uomini che le rendono concrete. Sono quelle che lavorano nella Pubblica amministrazione. Se le gambe sono sbagliate, il cammino riformatore si ferma.
Posso ben dirlo visto che per cinque anni ho guidato un’amministrazione importante dello Stato italiano: il Dipartimento per le Comunicazioni del ministero dello Sviluppo economico. L’erede del glorioso ministero delle Poste e Telecomunicazioni: quello che fu il tempio dello statalismo all’italiana. Il mio predecessore, negli anni ’80 si chiamava Segretario Generale, aveva ben altri poteri e un enorme raggio di azione. Era il vertice di un’amministrazione che comprendeva le Poste Italiane e la famigerata Sip, allora pubbliche. Era cioè il capo di oltre 300mila persone e riferimento dei (potenti) ministri che si avvicendavano e degli amministratori delegati e presidenti delle società pubbliche. Nulla poteva accadere senza una sua firma. Da lui dipendevano la vita e la carriera di decine di migliaia di persone. Assunzioni a frotte, decreti senza Authority indipendenti a controllare, spese senza vincoli sul debito o controllo europeo. I conti economici delle Poste e dell’allora Società Italiana Per l’esercizio telefonico (Sip) seguivano il criterio contabile del “a babbo morto” o del “paga Pantalone”. Così è cresciuta la società italiana, coi suoi pregi e difetti: l’immarcescibile assistenzialismo, l’enorme debito pubblico, l’assenza del senso di responsabilità per sé e per il sistema Paese. La burocrazia ripiegata su se stessa, incapace di stare al passo coi tempi.
La domanda vera è: cosa è cambiato da allora? Poco e non in meglio. Ci sono certo delle punte di eccellenza ma è questo uno degli snodi che non permettono all’Italia di correre. Le gambe sono stanche, appesantite e deboli. Uno dei problemi principali del nostro Stato, infatti, è che quasi nessuno dei più alti burocrati italiani ha mai fatto altre esperienze o ha mai visto un’azienda: non sa come funziona né conosce il principio di responsabilità che impone la gestione di un conto economico e patrimoniale, lo stimolo della ricerca di un profitto o l’obbligo di contenere i costi. Ovvero la necessita di competere, di stare sul mercato. La burocrazia ha il vizio di essere spesso un potere autoreferenziale scollegato dai reali bisogni dei cittadini e delle aziende. Non è dinamica, è statica. Non me ne vogliamo i miei ex colleghi, ma i primi a patire questa situazione sono i più bravi (e ce ne sono) tra di loro.
Il monumento al burocrate anonimo a Stettino, Polonia
La Pubblica amministrazione soffre in particolar modo il progressivo e drammatico deterioramento delle competenze dovuto all’assenza di ricambio. Tra blocco dei concorsi, mancanza del turn over e la chiusura progressiva della possibilità di prendere persone dall’esterno (follia!), la forza lavoro della o Pa è sempre più vecchia e sempre meno competente. Non solo, ma quel che è peggio sono le condizioni di lavoro nei ministeri. A parte i dirigenti di vertice, gli stipendi sono mediamente bassi, gli organici sovradimensionati, le possibilità di carriera diventate nulle. La parte variabile delle retribuzioni è minima e, anche per le resistenze corporative dei sindacati, quasi sempre distribuita a pioggia e raramente premiante i più meritevoli. La formazione scarsa così come la crescita professionale e la diversificazione del lavoro.
Questo insieme di cose significa togliere ogni tipo di motivazione alle persone che lavorano nei ministeri. La produttività ne risente in maniera drammatica. D’altronde, l’innovazione si fa soprattutto con le nuove generazioni: che possibilità ci sono in tali condizioni per la Pa di essere incisiva nelle scelte fondamentali per il Paese? Di poter contribuire alla crescita e allo sviluppo?
Il monumento al burocrate anonimo, a Reykjavik, Islanda
Oggi il grosso del lavoro della Pa è gestire l’ordinaria amministrazione, ossia l’insieme di obblighi, procedure, incombenze a carico dei cittadini e delle imprese. Alcune giuste, molte inutili. Da tutto questo si deve uscire al più presto. Stiamo condannando i nostri figli ad avere un futuro peggiore del nostro. Le due generazioni che ci hanno preceduto hanno un enorme responsabilità in questo senso. Sarà il primo caso dove le colpe dei padri ricadranno sulle spalle dei figli. La mia generazione invece si trova esattamente nel mezzo ma possiamo ancora provare ad invertire la tendenza. L’unico modo per farlo è saldarci con le capacità e le caratteristiche delle generazioni dei ventenni e dei trentenni dando loro lo spazio che i nostri padri non hanno saputo dare a molti di noi.
L’obiettivo è semplice: far tornare il nostro Paese all’altezza delle capacità e delle aspettative dei nostri ragazzi. Matteo Renzi ha detto giustamente che il Paese è avanti rispetto alla politica. Ora faccia le riforme che permettano alla politica e alla Pa di tornare a correre. Iniziando da una prima rivoluzionaria decisione. La burocrazia, come detto, ha bisogno di competenze, di apertura all’esterno, di far saltare i patriarcati. Allora si decida che i contratti di tutti i dirigenti pubblici apicali – capi di gabinetto, capidipartimento, segretari generali, direttori generali – siano a tempo determinato. Con contratti di tre anni rinnovabili solo una volta. Che nessuno possa accumulare più di sei anni nello stesso posto. Si eliminino i posti a vita. E comunque siano tutti soggetti allo spoil system e senza più ridicole quote che limitano il ricorso agli esterni (oggi al 10 per cento). Vedremmo un cambio di passo immediato e straordinario nel funzionamento dello Stato e così la stessa politica si costringerebbe ad essere più responsabile, attenta e competente. E che nessuno, burocrati e politici, abbiano più paura del merito e delle responsabilità.