In missione per conto della musica indie religiosa

Mars Hill Music

Leviamoci subito questo dente. Uno dei dischi più belli degli ultimi dodici mesi è un disco religioso. E non parliamo di quelle band dai tratti volutamente spirituali che basano sui chiaroscuri sacri/profani la propria aura mistica, parliamo di un ministro di una confraternita protestante e di un disco che non sfigurerebbe tra le bancarelle di souvenir a Lourdes.

Il disco si chiama Water and Blood. Il ministro protestante, Dustin Kensrue.

Ora, quel Dustin Kensrue è lo stesso Dustin Kensrue che per dodici anni ha calcato i palchi di mezzo mondo alla guida di una delle più talentuose band punk-hardcore della storia, i Thrice.

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È il 2012 quando Dustin Kensrue annuncia alla sua ormai sconfinata platea internazionale che i Thrice intendono prendersi un indefinito periodo di pausa. Niente di sconvolgente, in apparenza: i quattro sono in attività fin dagli anni del liceo, i tour sono sempre più sfiancanti e la vita familiare sempre più esigente: ci sono i figli da portare a scuola, le mogli da tranquillizzare, il prato da tagliare. Insomma, la solita roba.

Non fosse che, nell’annunciare il tour d’addio, Kensrue pensa bene di vuotare il sacco sul motivo reale che lo porterà lontano dai palchi dei festival punk. Da qualche tempo si è avvicinato alla comunità religiosa di Seattle, è diventato un pastore protestante, e quelli della sua chiesa vogliono che si dedichi a tempo pieno all’attività di tutore spirituale.

La Mars Hill però non è una chiesa come tante, è una megachurch più volte accusata di essere una sorta di setta cristiana votata al bigottismo più ottuso e maschilista. Nonostante conti meno di 7.000 adepti, negli States è piuttosto conosciuta e, quando si viene a sapere che uno dei songwriter più dotati della scena ha deciso di mettere la sua sei corde a disposizione della Mars Hill, alcuni fan voltano le spalle alla band. Altri, invece, si incuriosiscono e cominciano a bazzicare il sito della confraternita. Si viene così a scoprire che Kensrue non ha messo i Thrice in freezer per snocciolare sermoni, le sue mansioni sono molto più particolari, e hanno ancora che fare con la musica. Kensrue ha ricevuto il compito di rivoluzionare il concetto stesso di musica religiosa portando una ventata di freschezza in un genere che da anni agonizza sotto la polvere della tradizione. In poche parole: gli hanno chiesto di rendere figa la musica religiosa, a costo di doverci infilare chitarre distorte, ritmiche singhiozzate e voci roche.

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Leviamoci anche quest’altro dente: una delle etichette più interessanti del momento, è un’etichetta religiosa. Nell’alveo della Mars Hill Music si trovano alcune band che, per quanto paolotte e intrise di dogmi protestanti, partoriscono dischi musicalmente interessanti. Si trova un po’ di tutto: dall’alternative-folk, all’indie-rock fino all’electro-pop, ma ognuna di queste band mostra caratteristiche comuni – molte delle quali frutto di una sapiente emulazione della cifra stilistica di Kensrue – che fanno pensare, ormai, a una vera e propria scena.

Ricordate la Seattle anni 90, il grunge, la Sub Pop, i Mudhoney, i Nirvana, i Melvins? Dimenticatevela. La Seattle di oggi è la culla dell’alternative protestante, è la città dei Dustin Kensrue, della Mars Hill, e di un interminabile rosario di band che abbinano un raffinato talento musicale a stucchevoli liriche parrocchiali.

Per amor di verità, abbiamo selezionato tre delle proposte più interessanti del catalogo Mars Hill. Date pure un’ascoltata, ma a vostro rischio e pericolo. Non ve la prendete con noi se di qui a qualche giorno vi ritroverete a canticchiare «Dio è buono», guadagnandovi gli sguardi imbarazzanti di chi vi sta intorno.

Noi, per sicurezza, ci barrichiamo nella nostra vecchia cameretta, con No Code dei Pearl Jam sul piatto e un secchio di Maalox a portata di mano.

The Modern Post

Prima di scrivere Water and Blood, prima di far decollare la Mars Hill Music, mentre le ceneri dei Thrice erano ancora tiepide, il diacono Dustin Kensrue ha pensato bene di fondare un’altra band – con la quale scrivere canzoni pensate per essere cantate in gruppo, possibilmente attorno a un falò e uniti in preghiera – e di chiamarla The Modern Post. Non fatevi ingannare dal nome: per quanto orecchiabile, come del resto ogni singola nota partorita dal quartetto, è intriso di fede. «Associo il termine “post” con le notizie» chiarisce Kensrue in un’intervista «E non c’è notizia migliore della buona novella di Cristo». Con una premessa del genere, figuratevi i testi. Per fortuna, la musica è di tutt’altra caratura. I The Modern Post prendono la costola più dolente dei Thrice, la imbottiscono con la trasognata placidità tipica di chi “ha visto la luce” e la condiscono con una spruzzata di synth. Ci siamo sforzati di levarci queste canzoni dalla mente, ma Cristo, se è dura.

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Kenosis

Qui siamo già nella leggenda. Il Pastore Joel Brown non poteva continuare a vedere gli adepti della Mars Hill Music persi in una valle di lacrime per lo hiatus degli amati Red Letter. E nel 2011, picchiandosi il petto al grido di «Mio Dio, mio Dio mi spiace! Mio Dio, mio Dio perdonami!», sceglie di incamminarsi lungo la strada dei riffoni e dei chitarrozzi effettati e fonda i Kenosis. Completano la band: Jordan Butcher, che percuote i tamburi e smanetta con le programmazioni, Jesse Herlitz alla seconda chitarra e soprattutto Hanna Moreno, che da dietro le tastiere ci regala una seconda voce che sa ritagliarsi momenti da assoluta protagonista. Un disco all’attivo, Depth of Mercy, e uno scafato album dal vivo, Kenosis Live, ci regalano saliscendi atmosferici e spazi sonici, e prima che te renda conto stai saltellando sul posto e levando le braccia al cielo in attesa di un finale catartico in cui «le Sue ferite hanno pagato il mio riscatto».

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Citizens

Barbe lunghe e felpe che neanche negli anni ‘90, i Citizens hanno un obiettivo dichiarato: il desiderio di vedere tutti i propri concittadini radunarsi nell’University District e adorare Gesù Cristo. Per farlo, la band capitanata dal Diacono Zach Bolen gioca la carta di un rock che, manco a dirlo, punta ad anatemi e inni da far vibrare le corde vocali di tutti gli amanti del sing-along. Un disco omonimo, un live e due EP alle spalle (l’ultimo, Repeat The Sounding of Joy, è uscito lo scorso Natale) i Citizens ti stendono con fraseggi micidiali a furia di chitarrini, tastiere e un mix di linee di basso e batteria che cucinano una ritmica da dance floor, roba che manco in un party a Brooklyn. E dopo che ti sei consumato le corde vocali gridando quanto è «fantastica la grazia», la tua testa ciondola sulle spalle, cullata da un riffino che vorresti durasse altri «duemila anni». Se ancora non ti sei convertito, crollerai sulle note di Oh God, suonate da una Telecaster alla Hallelujah di Jeff Buckley, e quasi riesci a immaginarti che invece di morire affogato, si sia salvato camminando sulle acque.

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