Inchiesta sugli immigrati in Italia durante la crisi

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Operai, muratori, agricoltori. Sempre meno stranieri vedono nel nostro Paese una meta di lavoro felice. Con la crisi, i licenziamenti non fanno differenza di nazionalità. I permessi di soggiorno per lavoro si dimezzano di anno in anno: erano 350mila nel 2010, si sono ridotti a 67mila nel 2012. E riguardano soprattutto i lavori di badante e assistente domiciliare, gli unici ad avere il segno più. I distretti manifatturieri italiani per gli operai stranieri non rappresentano più una porta di ingresso privilegiata nel nostro mercato del lavoro. Solo l’agricoltura viene vista ancora come un’opportunità

In effetti, secondo il 19esimo rapporto nazionale sulle migrazioni della Fondazione Ismu, nei prossimi anni si assisterà a un rallentamento dei ritmi di crescita della popolazione straniera presente nei nostri confini: il tasso medio di crescita annua dovrebbe ridursi dall’attuale 7% all’1,3% circa nel 2030-2034. Nel 2020 gli immigrati residenti saranno oltre 7 milioni, nel 2035 poco meno di dieci. Non a caso, molti decidono di emigrare di nuovo: solo nel 2011 200mila stranieri hanno detto addio al nostro Paese. 

1. La stabilizzazione degli immigrati in Italia
Nonostante la domanda di lavoro sia calata, la percentuale degli immigrati in Italia continua a crescere, seppur con percentuali minori, e non per la ripresa degli ingressi illegali dalle frontiere (in questi casi si tratta di richiedenti asilo in fuga dai Paesi d’origine e non di immigrati). Gli stranieri aumentano soprattutto perché non si è arrestata la forte domanda di donne immigrate per il lavoro domestico e di assistenza agli anziani. 

Dal 2008 al 2012 i cittadini stranieri iscritti all’anagrafe sono cresciuti di oltre un milione, arrivando a sfiorare i 5 milioni, quasi l’8 per cento della popolazione residente in Italia. È probabile che molti fossero già presenti nel nostro Paese anche prima del 2008. Ma l’iscrizione all’anagrafe dopo lo scoppio della crisi, così come la crescita dei ricongiungimenti familiari, è un chiaro segnale della volontà di radicarsi e stabilizzarsi nel nostro Paese. Con la contrazione delle assunzioni, certo, crollano i nuovi ingressi, anche se con uno scarto temporale di due o tre anni, il tempo necessario perché la notizia delle crescenti difficoltà di trovare lavoro si diffonda. Per contro, però, non si registra un’impennata dei fenomeni di ritorno nei Paesi d’origine, anche tra i cittadini comunitari

Gli stranieri costituiscono ormai una componente strutturale del mercato del lavoro italiano. Ma, scrivono Emilio Reyneri e Federica Pintaldi in Dieci domande su un mercato del lavoro in crisi, «la dura realtà dell’inserimento nel mercato del lavoro rivela il serio rischio che gli immigrati diventino sempre più delle minoranze etniche, concentrate in attività molto utili, ma poco qualificate o faticose e quindi non gradite ai giovani nativi, il che aggiunge un’ulteriore dimensione al carattere duale del mercato del lavoro italiano». 

2. Il lavoro degli stranieri durante la crisi
Prima della crisi, al contrario dei Paesi dell’Europa centrosettentrionale, il tasso di disoccupazione dei lavoratori immigrati nel nostro Paese superava solo di poco quello degli italiani. Ma al contrario dei Paesi dell’Europa del Nord, dove la domanda di lavoro era orientata verso mansioni qualificate, in Italia la crescita economica degli anni Novanta ha generato una forte domanda di lavoro poco qualificato, non soddisfatta dalla presenza di giovani italiani sempre più istruiti e con crescenti aspirazioni occupazionali, e coperta quindi dagli stranieri.

Gli immigrati, anche quelli entrati senza un permesso di soggiorno per motivi di lavoro e successivamente regolarizzati, trovavano facilmente lavoro, ma ai livelli più bassi di qualificazione. Non a caso, fino al 2008 il tasso di disoccupazione dei maschi stranieri era quasi uguale a quello degli italiani e quello delle donne immigrate era superiore di 4-5 punti percentuali rispetto alle italiane. Quando poi la crisi è esplosa, solo per i maschi immigrati il tasso di disoccupazione è cresciuto più di quello degli italiani, fino a superarlo di 3 punti percentuali, mentre il tasso di disoccupazione delle straniere ha seguito più o meno l’andamento di quello delle italiane.

La ragione del maggior aumento della disoccupazione dei maschi stranieri rispetto agli italiani sta nella loro concentrazione nei settori più duramente colpiti dalla crisi, cioè le costruzioni e l’industria manifatturiera. Tra il 2008 e il 2012 il tasso di disoccupazione degli stranieri nel nostro Paese è salito di quasi 2 punti percentuali rispetto agli italiani. Peggio, se si considera l’intero periodo a partire dall’inizio della crisi: il numero di lavoratori immigrati è diminuito di 6,5 punti percentuali contro 1,8 punti degli italiani.

Secondo i dati Ismu, nel 2012 i nuovi permessi di soggiorno concessi per ricongiungimenti familiari sono stati 120mila, 67mila quelli per lavoro, 31mila per studio e 30mila per altri motivi, di cui solo 4mila per rifugiati o in protezione sussidiaria, 2mila per ragioni umanitarie, 4mila per minori non accompagnati e 563 per vittime di tratta. Escludendo i rumeni e in generale tutti i cittadini non comunitari che non necessitano dei permessi, al primo gennaio 2013 ne risultavano validi un totale di 3,8 milioni di cui la maggior parte (2,1 milioni) ormai a tempo indeterminato.

La scarsa attrattività del mercato del lavoro italiano è quindi testimoniata dal nuovo dimezzamento dei permessi concessi per motivi di lavoro rispetto al 2011, quando si erano già ridotti di due terzi rispetto ai circa 350mila del 2010. Per chi rimane in Italia la presenza si fa più stabile e consolidata, con una quota di permessi a tempo indeterminato che raggiunge nel 2012 il 55% a fronte del 52% del 2011 e del 46% del 2010. Le nazionalità che registrano più ingressi per famiglia rispetto a quelli per lavoro sono l’albanese (in rapporto di 3,4 a uno) e la marocchina (2,5 a uno), da più tempo in Italia e ormai insediati stabilmente. Per quanto riguarda i ricongiungimenti familiari, 55mila (il 46%) sono permessi rilasciati ai partner, 43mila (il 36%) ai figli e 21mila (il 18%) ad altri membri. Per quanto riguarda i permessi per lavoro, 2mila (il 3%) sono stati concessi per personale altamente qualificato o ricercatori e 10mila (il 15%) per gli stagionali.

3. Gli immigrati nei distretti

«Non c’è una sostituzione degli stranieri da parte degli italiani nei lavori poco qualificati, con la crisi c’è una soppressione generale dei posti di lavoro», dice Andrea Crisci, funzionario della Confindustria di Vicenza esperto nelle tematiche relative ai lavoratori immigrati. «Nella nostra provincia, una delle più industrializzate d’Italia, l’arrivo massiccio degli stranieri c’è stato negli anni Novanta per poi consolidarsi negli anni 2000, anche con una serie di ricongiungimenti familiari. Ma negli ultimi anni c’è stata una brusca inversione di tendenza: con l’incertezza del mantenimento del posto di lavoro o addirittura con la perdita del posto di lavoro stesso anche tra molti stranieri, abbiamo registrato una riduzione dei nuovi arrivi». 

Nel Veneto, che ospita tra i più ricchi distretti industriali italiani, ci sono paesi, come Arzignano, nel distretto vicentino della concia, dove la percentuale di stranieri sulla popolazione residente ha raggiunto nei primi anni 2000 anche il 15 per cento. Molti degli immigrati arrivati in Italia hanno trovato impiego nelle piccole e piccolissime imprese legate al made in Italy, dalla Toscana alla Lombardia, soprattutto nel settore metalmeccanico, in quello tessile e del cuoio, e in quello del mobile. In alcune città, come Brescia e Prato ad esempio, la percentuale di stranieri risulta più del doppio della media nazionale. Assumendo manodopera straniera, spesso i datori di lavoro hanno risparmiato, se – come emerge dal Rapporto annuale Istat del 2005 – nel 2001 i salari degli immigrati erano mediamente inferiori del 31% rispetto alla media (soprattutto per gli irregolari). 

La presenza di lavoratori immigrati, scrivono Reyneri e Pintaldi, è stato ed è essenziale per la tenuta di due settori centrali per la struttura produttiva del centro Nord e più in generale per la competitività dell’economia italiana: l’industria manifatturiera e le costruzioni, che si caratterizzano per una forte presenza di immigrati maschi. I due terzi delle industrie manifatturiere italiane sono concentrate al Nord, dove l’alto tenore di vita dei giovani li porta a non accettare il lavoro in fabbrica, che viene quindi coperto dagli immigrati.

«Nel nostro territorio tradizionalmente gli stranieri hanno trovato lavoro nel distretto della meccanica di Vicenza, soprattutto in aziende che richiedono un maggior impiego di manodopera non qualificata, come le fonderie», spiega Crisci. «Anche nel distretto della concia di Bassano del Grappa e dintorni c’è stata un’alta percentuale di lavoratori stranieri, provenienti soprattutto dai Paesi africani e dal Bangladesh; ma pure nel distretto del marmo del veronese e del vicentino. Oltre ovviamente all’edilizia, che ha sempre attratto soprattutto lavoratori dell’Est Europa, in particolare dall’ex Juogoslavia, di cui molti serbi».

Ma negli ultimi anni anche il ricco Veneto non è più meta di realizzazione dei sogni degli immigrati. E molti lavoratori rifanno le valigie per tornare nei Paesi d’origine. «Ma non in maniera massiccia», precisa Crisci. «Certo, alcuni hanno scelto di rimpatriare insieme ai familiari, parliamo anche di persone presenti ormai da molti anni in Italia. Abbiamo registrato fenomeni di rientro soprattutto per gli immigrati provenienti dalla fascia subsahariana, molti ganesi, ma anche persone che vengono dal Bangladesh e dallo Sri Lanka. Ci sono quelli che tornano nei loro Paesi d’origine, ma anche altri che decidono di spostarsi verso il Regno Unito o la Germania, dove magari abitano altri parenti o connazionali»

Essendo però il Veneto meta di immigrazione ormai da più di 20 anni, «ci sono famigllie che sono già arrivate alla seconda o alla terza generazione, quindi non più disposte a spostarsi. Quelli immigrati di recente con figli ancora piccoli sono invece più disposti a rifare le valigie. E ci sono anche diversi fenomeni di autoimprenditorialità: molti lavoratori prima dipendenti sono poi diventati piccoli impenditori, soprattutto nell’edilizia. Sono imprese piccole che lavorano secondo la logica del subappalto. Non si sa però in questo caso cosa decidono di fare i titolari se l’azienda è costretta a chiudere». 

Quello che non è venuto meno, invece, in un territorio che ospita anche molte sedi di multinazionali, «è l’ingresso di lavoratori stranieri altamente qualificati, assunti in ruoli dirigenziali. Non a caso da tre anni a questa parte nei decreti flussi non vengono rilasciate quote per ingresso di manodopera non altamente qualificata, a parte le quote di ingresso per le badanti». 

In un orizzonte di tagli del costo del lavoro e chiusura di aziende, a reggere ancora è il settore agricolo, che rappresenta anche con la crisi un’opportunità di lavoro per gli immigrati. Nel salernitano c’è uno dei maggiori distretti agroalimentari italiani, concentrato nella zona tra Nocera inferiore e Gragnano. Qui gli stranieri sono impiegati soprattutto come agricoltori e non nelle numerose aziende di conserve alimentari, che nel periodo estivo (da luglio a settembre) danno lavoro soprattutto a manodopera italiana. 

«Nonostante la difficile congiuntura economica che ha coinvolto anche le nostre aziende agricole», spiegano dalla Coldiretti di Salerno, «si registrano ancora significative opportunità di lavoro per gli stranieri in Italia». Nella provincia di Salerno, la richiesta di manodopera straniera è legata alla tipologia del comparto. «Per esempio nella Piana del Sele, le aziende che più assumono manodopera straniera sono quelle legate ai comparti orticolo e zootecnico». Per quanto riguarda il Paese di origine degli immigrati, c’è una forte «presenza di neocomunitari e anche una forte componente extra-europea, in particolare africana e indiana». Ma anche qui c’è da fare un distinguo, perché alcune nazionalità si sono ormai specializzate in specifici comparti, grazie alle reti sociali delle comunità emigrate. «Ad esempio nel settore zootecnico la presenza degli indiani è fortissima rispetto alle altre nazionalità». Ma una cosa accomuna tutti questi lavoratori: «La qualifica professionale, già in loro possesso ancor prima di arrivare in Italia, spesso non corrisponde a quella richiesta per l’attività che svolgono nelle aziende agricole, in quanto le mansioni a loro affidate sono prevalentemente di basso profilo e scarsa qualificazione». E i contratti utilizzati «sono prevalentemente stagionali o avventizi (contratti provvisori sottoscritti per ragioni straordinarie, ndr)». 

4. Immigrati disoccupati

Le occasioni di lavoro, insomma sono sempre meno e sempre meno qualificate. E per chi si è spostato in cerca di una vita migliore, rinunciando alla propria terra e ai propri affetti, tanto vale fare di nuovo le valigie. Secondo i dati Ismu, solo nel 2011 200mila immigrati hanno lasciato il nostro Paese, spostando la propria residenza all’estero. La crisi economica ha reso meno attraente l’Italia, anche per gli stranieri. Soltanto gli ingressi per ricongiungimento familiare (120mila durante il 2012) non subiscono flessioni significative rispetto agli anni scorsi, a testimonianza del fatto che il fenomeno migratorio in Italia è sempre più stabile, regolare e di tipo familiare. 

Ma le occasioni di lavoro continuano a calare. Nel 2012 gli immigrati occupati sono 2 milioni 334mila, 82mila in più rispetto al 2011. A crescere (+80%) è solo la domanda di assistenza familiare, che occupa soprattutto le donne. Ma per effetto della crescita degli immigrati in cerca di lavoro, aumenta anche la disoccupazione: nel primo semestre 2013 i senza lavoro stranieri erano 511mila, mentre nel 2012 erano 380mila (+25% nel giro di 12 mesi). Il 60% si concentra al Nord, e nel Nord Ovest quasi un disoccupato su quattro è straniero. Se guardiamo al periodo 2011-2012, è la componente maschile ad avere registrato un vero e proprio tracollo. Nel Mezzogiorno, l’aggravamento del tasso di disoccupazione per gli uomini immigrati è pari addirittura al 43,6%, 13 punti superiore a quello che ha colpito i lavoratori autoctoni. Nel “mitico” Nord Est, invece, il tracollo accomuna italiani e immigrati: 40,2% l’incremento del tasso di disoccupazione registrato tra i primi, 42,2% tra i secondi.

Il calo più drastico si registra nell’industria e nell’edilizia, i settori che più hanno richiesto manodopera durante gli anni. Nell’industria si registra un meno 48%, nelle costruzioni un meno 38 per cento. Rispetto ai livelli precrisi del 2007, le assunzioni di stranieri nel settore dell’edilizia si sono ridotte dell’80 per cento. Il calo dipende da una minore richiesta di stranieri da parte degli imprenditori, ma anche da una maggiore offerta di italiani in questi settori, spiegano da Ismu. L’unico comparto (da sempre caratterizzato da lavoro immigrato) che “tiene” è quello dell’assistenza familiare: secondo i più recenti dati ministeriali gli occupati stranieri nei servizi alla persona nel primo semestre del 2013 sono cresciuti del 5 per cento. 

«È dunque del tutto inverosimile ipotizzare nei prossimi anni una crescita del lavoro straniero simile a quella che ha caratterizzato lo scorso decennio», si legge nel rapporto della Fondazione Ismu. «Si presume dunque che l’economia italiana non avrà bisogno di nuovi lavoratori stranieri proprio per la progressiva saturazione della domanda di lavoro tradizionalmente rivolta agli immigrati. O comunque si ipotizza che l’economia italiana avrà una domanda di lavoro straniero che potrà essere più che soddisfatta dagli immigrati presenti o da quelli in arrivo per ragioni umanitarie o familiari». Quello che manca sono «servizi adeguati a favorire l’effettivo incontro tra domanda e offerta di lavoro. Ad esempio oltre la metà degli stranieri disoccupati nel 2012 ha contattato un centro per l’impiego. Tuttavia, solo il 2,4% ha beneficiato di servizi di consulenza/orientamento, solo lo 0,4% di un’opportunità di formazione e uno solo lo 0,8% ha ricevuto un’offerta di lavoro».

5. Lavori faticosi e poco qualificati
Nel 2012 ormai un occupato su dieci ha la cittadinanza straniera, ma le differenze tra le regioni, settori e livelli di qualificazione professionali sono enormi. Nel 2012 nel Centro Nord gli immigrati hanno raggiunto il 12-13% degli occupati, mentre nel Mezzogiorno superano di poco il 5 per cento. Quanto ai settori, la presenza di lavoratori stranieri è maggiore nei servizi alle famiglie (oltre il 76%), le costruzioni (19%), gli alberghi e la ristorazione (circa il 16%), l’industria manifatturiera (quasi il 10%) e i trasporti (oltre il 9%). Caso a parte è l’agricoltura, dove la presenza di lavoratori immigrati è molto sottostimata dalla rilevazione sulle forze di lavoro, che ignora gli immigrati stagionali e gli irregolari privi di permesso di soggiorno. Molto squilibrata, ovviamente, è la presenza degli stranieri per livello di qualificazione: gli immigrati sono il 33% dei lavoratori addetti a compiti elementari e il 14% degli operai specializzati e qualificati fino a meno del 2% per le professioni più qualificate.

Tutti i lavoratori stranieri, anche quelli con elevati livelli di istruzione, occupano ancora i gradini più bassi della gerarchia occupazionale. E questo si ripercuote sugli stipendi: la retribuzione netta mensile, per gli stranieri, è, in media, più bassa: nel 2012, si attesta a 968 euro contro i 1.304 euro dei lavoratori italiani (-336 euro). Si può stimare che oltre un terzo dei maschi e quasi la metà delle femmine svolgano un lavoro che richiede un titolo di studio inferiore a quello conseguito. Dal 2008 al 20012 la percentuale di occupati in attività elementari, prive di ogni contenuto professionale, è cresciuta dal 22 al 28% per i maschi e dal 40 al 43% delle femmine, mentre quella degli occupati in professioni intellettuali, tecniche e impiegatizie è diminuita dal 9 al 7% per i maschi e dal 14 al 10% per le femmine. Anche la percentuale di lavoratori manuali specializzati è diminuita per entrambi i generi, mentre è cresciuta soprattutto per le donne quella degli addetti ad attività commerciali e di servizi alla persona, che comprendono commesse, cameriere e badanti.

Nel 2012 nell’industria manifatturiera del Nord Italia quasi la metà degli occupati è composta da operai maschi, e di questi il 20% è immigrato. Gli immigrati sono soprattutto operai non qualificati (28%), ma anche operai specializzati (16%). Nelle costruzioni, gli stranieri sono il 26% di tutti gli operai, con una punta del 41% tra quelli non qualificati. Presenza ancora maggiore tra gli operai più giovani fino a 34 anni: oltre il 37% degli specializzati e addirittura oltre il 58% dei manovali comuni.

Crescono invece le imprese individuali guidate da immigrati non comunitari. Studiando la variazione tra 2011 e 2012, si delinea un aumento di circa sei punti percentuali (circa +16mila imprese nel 2012). La crescita maggiore nel Lazio (+13,4%) e in Campania (+10,8%). Si tratta soprattutto di imprese dedite al commercio all’ingrosso o al dettaglio. 

I numeri più alti si raggiungono in tutta Italia nel settore dei lavori domestici e di cura alle pesone. Nel 2012 tra le donne che hanno dichiarato di svolgere il lavoro domestico, oltre il 75% non aveva cittadinanza italiana. La presenza di donne immigrate va crescendo anche in alcune figure figure professionali, tipicamente femminili, del sistema di assistenza sanitaria e sociale: infermiere, inservienti, addette alle pulizie. In questo, si sono specializzate alcune nazionalità: quella filippina (69,2%), ucraina (65,1%), peruviana (54,2%), srilankese (48,2%), moldava (47,5%) ed equadoregna (39,2%). Un boom, scrive Mara Tognetti Bordogna in Donne e percorsi migratori, favorito dall’assegna di servizi pubblici nel nostro Paese, che ha consentito «alle donne italiane di lavorare fuori casa “conciliando” gli impegni familiari, senza nulla cambiare nella relazione di genere». Un sostegno essenziale, insomma, per consentire alle donne italiane, che hanno ancora in carico oltre il 70% del lavoro domestico, di entrare nel mondo del lavoro.

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