La fine del mondo secondo George Saunders

mini minimum fax

Ora, temo di non avere più niente di nuovo da dire su George Saunders. Temo che tutto sia stato detto, e quello che è stato detto è così giusto, così entusiasticamente giusto che io, nel mio entusiasmo esagitato e mediocre, non potrei aggiungere nulla. Qualche mese fa, all’uscita di Dieci Dicembre, ho definito Saunders un genio inarrivabile. Lo confermo. Ho anche detto che sarei andato a comprare tutto quello che avrei trovato in tutte le edizioni disponibili, l’ho fatto. Ma per quanto riguarda Pastoralia, prima di buttarmi alla ricerca della prima edizione italiana, passata in infame sordina nel 2001per Einaudi Stile Libero, ho aspettato che uscisse la riedizione minimum fax. Il formato tascabile e longilineo dei mini mi sembrava particolarmente adatto per un libro con la pretesa di predirmi il futuro.

Allo stato delle cose, potrei facilmente descrivere i prossimi anni di vita dell’umanità, perché quello che Saunders ha composto attorno al 2000 è un mosaico così convincente da non lasciare troppi dubbi. Solo che se non si è George Saunders è difficile indorare la pillola abbastanza da convincere gli altri. Pastoralia è il futuro. Un futuro equidistante dal presente del lettore e dalla fine del mondo, il che apre una serie di inquietanti interrogativi su quello che Saunders si è inventato e quello che Saunders effettivamente sa. Per fortuna la nostra caduta è descritta in modo talmente ironico e imprevedibile da rendere l’amara previsione sostanzialmente indolore. 

La fine del mondo è un ritorno al niente, alla brutalità degli albori dell’uomo, ma regolata da diaboliche dinamiche aziendali che ricordano molto da vicino i ricatti del precariato. Il racconto che dà il titolo alla raccolta è l’esempio più lampante di quanto la genialità di Saunders possa addentrarsi senza troppo pensarci nel labirinto delle bestialità umane. Comparso sul New Yorker nel 2000 e scritto in quella lingua sintetica e diretta, propria di un foglio di appunti più che del parlato, descrive l’esistenza in bilico di due dipendenti di qualcosa a metà tra uno zoo safari e un parco a tema – che io per qualche ragione immagino immenso, dispersivo e trascurato. C’è la ripetitività dei giorni senza nessuna visita, anzi, senza che nessuno si affacci alla vasca, senza una capra da abbrustolire, dovendo contare i cracker ma senza potersi ritenere sollevati dei propri obblighi di cavernicoli. Senza potersi licenziare e col rischio di farsi scavalcare da qualcuno di più bravo, qualcuno che si sia fatto impiantare una protesi permanente nell’arcata sopraccigliare. Mi rendo conto che per chi non ha ancora letto la raccolta, questa cascata di particolari può risultare ostica, ma è un modo efficace per esprimere quello che ci si deve aspettare da Saunders: l’inevitabilità di una caduta irreversibile condita di particolari tanto assurdi da rendere il viaggio memorabile. 

Il futuro di Pastoralia è così vicino al nostro presente da confondersi con esso e da legare tutte le storie che compongono il libro in un nemmeno-troppo-lento declino verso il fallimento di tutti i propositi – nel migliore dei casi – o la dannazione eterna – nel peggiore. Perché non si intravede possibilità di riuscita alla fine e anche se le cose sembrano mettersi non troppo male, lo spettro delle possibilità rimane limitato. 

C’è da precisare che Saunders parla dell’America. Può sembrare qualcosa di ovvio per uno scrittore nato in Texas e cresciuto in Illinois, ma non è così e sicuramente non esula dalla fine chi è cresciuto nei satelliti del gigante. L’America di Saunders è un immenso supermercato di emozioni negative, di reazioni stupite a follie perfettamente integrate nel panorama della grandezza che la caratterizza. È un pascolo di grossi animali di metallo, immobili e inutili, più che la proiezione delle grandi praterie del mid-west, ed è il loro trasformarsi nei racconti in bestiame in veloce movimento. È come se le facce sorridenti e cartonate delle scatole dei cereali, allineate sigli scaffali, prendessero vita e il controllo del Paese. Sarebbe la disfatta di tutto quello che conosciamo, entreremmo in un inferno di schiavitù ai fiocchi di riso, ma tutto diventerebbe buonissimo, coloratissimo e molto sorridente. Immaginate qualcosa che prende avvio da Matt Groening e va a incastrarsi tra Spike Jonze e Terry Gilliam, ecco. 

Lo sguardo dello scrittore, in Pastoralia come in Winky – che si srotola in un meraviglioso mare di cappelli bianchi o rosa attraverso le perversioni religiose e di auto-aiuto – e nei racconti successivi, si ferma di dovere sulle vittime, sui miti che dovrebbero, in uno slancio biblico, ereditare la terra ma che finiscono sempre per subire le angherie di chi la terra se l’è trovata in mano senza fare nulla e adesso la fa girare come vuole. E allora si costruiscono, quasi naturalmente, quei dialoghi tanto assurdi quanto condivisibili in cui tutti si lamentano di tutto ma nessuno fa niente per cambiare il proprio destino da schiavo dei fiocchi di riso. Salvo ovviamente chi decide di abbassare il capo, reagendo nell’unico modo che conosce: con pacifica ed egocentrica rassegnazione.

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