Questa è la storia della spalla, della figura di secondo piano, della comparsa impacciata e sovrappeso che inciampa nei cavi. Solo che è interpretata da un attore magnificamente equilibrato e preciso, da uno di quelli che nei prossimi anni esploderanno e nessuno potrà dire di non esserselo aspettato per niente.
Jonah Hill ha paura di invecchiare. «Compiere ventinove anni è stata la cosa più difficile che io abbia mai fatto» ha detto a Tad Friend del New Yorker, «i miei vent’anni sono stati il meglio che ho vissuto, ero concentrato al cento per cento sul lavoro, avevo energia da vendere. Ora mia affaccio ai trenta e non so cosa mi aspetta». Ha paura di invecchiare e la faccia di un bambino. Il sorriso cordiale, il naso affilato e gli occhi brillanti di chi ha il futuro davanti e un bagaglio di cinema ad altissimi livelli sulle spalle. L’insicurezza ostentata di chi ci è nato dentro, all’industria, e ancora non ha trovato la voglia di uscirne. Vorrebbe non doversi fermare mai e non sa cosa succederà nei prossimi anni ma ha programmato tutto per arrivarci in grande stile. «Per molto tempo ho accettato qualsiasi parte mi venisse offerta, ero certo che ognuna fosse l’ultima e volevo farla al meglio. Poi ne arrivava un’altra, e dopo di quella un’altra ancora. Dormivo molto poco».
Ora Jonah Hill ha trent’anni ed è candidato all’Oscar per la seconda volta. Nel 2012 è stato per quel miracolo di Moneyball – l’arte di vincere. Miglior attore non protagonista di fianco a Brad Pitt, che per un po’ sembrava fosse arrivato alla sua volta buona. Hill era in stato di grazia, come se fosse appena rientrato da una vacanza di otto anni e avesse indossato i panni dell’esperto di statistiche/manager/nerd del baseball. Fresco, riposato, convincente. È difficile dire se qualcuno si sarebbe aspettato veramente di fotografarlo con un statuetta in mano, perché tutti erano ancora impegnati a stropicciarsi gli occhi nel vedere l’ex ragazzotto pacioccoso amante dell’erba e eterno escluso dalle feste muovere il suo robusto assetto nel professionismo. Sarà la fisicità, ma quando recita sta sempre un passo indietro rispetto al resto della scena, come se non fosse abituato a prendersela e non si sentisse mai pronto per dare la battuta. Ha l’istinto dell’ultimo arrivato, quello di non farsi trovare al centro dell’azione per non correre il rischio di sbagliare qualcosa e forse è questa la chiave del suo successo, dopotutto. Questo, e il ritmo mandato a memoria per non uscire mai dalle sillabe calcolate. Chi crede di non essere all’altezza è molto più spinto ad osare e quando prende confidenza diventa un fiume in piena.
Jonah Hill in Suxbad (2007)
Chi conosce Hill dall’inizio della sua carriera ha più o meno la sua età e ha passato gran parte del periodo dell’università a visionare ore e ore di film idioti in cui le tette vengono spesso suggerite ma raramente mostrate. Hill era il re dei lasciati in disparte. Compariva all’improvviso, sprofondato su un divano sfondato con in grembo un bong gorgogliante e diceva cose del tipo «ehi, bello!» oppure «dude, cosa cazzo devo fare per passare questo livello?» poi tornava nella marmaglia di facce più o meno tutte uguali. La cosa curiosa di quelle prime apparizioni è che quello che stava dentro e quello che stava fuori dallo schermo si assomigliavano in maniera preoccupante. Chi conosce Hill dalla prima ora era come lui – o come le parti che che sceglieva – per questo ora invoca la sua celebrazione a gran voce, come propria elevazione e assoluzione definitiva dei figli del cinema cazzone.
Non credo di aver mai visto I <3 Huckabees – e sono convinto di non essermi perso niente – ma per quanto riguarda il resto della filmografia di Jonah Hill dei primi anni 2000 sono piuttosto preparato. Film come 40 anni vergine, Click e Cocco di nonna fanno parte di un particolare momento in cui il suo volto si mescolava a quello di Seth Rogen e si andava a confondere tra i primi piani tristemente invecchiati di Adam Sandler, Ben Stiller e Steve Carrell. Poi sono venuti Molto incinta, Suxbad e il genio di John C. Reilly in Walk Hard che a loro modo hanno segnato un passaggio, per noi spettatori tra briciole di patatine e fondi di acqua marrone e odorosa, come per lui dentro lo schermo, che finalmente si preparava ad acquisire dignità da protagonista. «Avevo la sindrome dell’escluso. SDE. Se c’era una festa a cui non avevo voglia di partecipare, ci andavo lo stesso e mi annoiavo a morte. Ho fatto film che non capivo perché ero terrorizzato da cosa sarebbe successo se non li avessi fatti. Pensavo che gli altri vivessero la propria vita lasciandomi indietro e la cosa mi atterriva». La cosa interessante è che dal 2004 a oggi Hill ha preso parte a più di trenta film, la maggior parte dei quali non sono entrati nei salotti buoni. Viaggiava a un ritmo di due o tre film all’anno senza apparentemente accusare il colpo, ma anche senza lasciare che il grande pubblico se ne rendesse conto. Ora la frenesia dei primi anni sta dando i suoi frutti e l’eterno adolescente sta cambiando faccia. Quando portava le battute sul filo della bocca come se dovesse spingerle fuori a forza una per una, lasciava già intravedere quello che sarebbe stato: una figura di supporto in grado di risalire la china dell’interpretazione aggrappandosi al protagonista senza mai metterlo in ombra ma anzi, aiutandolo a risplendere. Così è stato per Pitt e così è per Leo Di Caprio in The Wolf of Wall Street. Si sono trovati di fianco una roccia che per anni è stata nascosta dal muschio viscido della commedia adolescenziale e che ora si sta per seccare al sole.
Nell’ultima fatica di Scorsese, Hill porta in scena la sua stessa fragilità e la strascica ai limiti del realistico. Donnie è un insicuro dai denti bianchissimi, il prototipo del SDE, stressato da una vita che non è in grado di sopportare ma non riesce a fare a meno di inseguire. Tra quaalude, menage a trois e nani da circo. Per presenzialismo più che per protagonismo. «Con Di Caprio ci siamo messi a fare ricerche per le nostre parti e abbiamo studiato la quotidianità di alcuni dirigenti della Bank of America. Sembravano ingessati, studenti di una scuola privata europea o qualcosa del genere. Noi avevamo bisogno di quello che può diventare un concorrente di Jersey Shore se lo riempi di soldi. Sono di Long Island, quindi in un certo senso conoscevo già Donnie, mi è bastato tirarlo fuori».
Sono abbastanza convinto che Jonah Hill abbia ottime possibilità di convincere l’Academy. Ne sono convinto perché mi sembra di leggergli in fondo alla gola la giusta dose di fiducia in se stesso e mentre lo guardo agitarsi sullo schermo con quei denti bianchissimi (e finti) e diciotto chili in meno rispetto a soltanto un anno fa, i tempi dei divani sfondati e dei bong mi sembrano lontanissimi. Anche per il bambinone cresciuto che alle prime si nasconde dietro la propria sagoma cartonata per spaventare le persone che stanno entrando in sala. «Ora voglio concentrarmi sulle relazioni, voglio essere pronto per cogliere ogni possibilità. Sposarmi, avere dei figli. Non so di cosa sto parlando, bevo un’altra birra».