L’ingresso di Dongfeng nel gruppo Psa Peugeot Citroën riaccende i riflettori sulla crescente partecipazione delle multinazionali cinesi nell’industria automobilistica mondiale. È sostenuta da un’elevata liquidità finanziaria, ma presenta segnali di debolezza.
Un’industria frammentata
L’ingresso di Dongfeng – il secondo produttore cinese di auto, dopo Saic, entrambi di proprietà pubblica – nel capitale di Psa Peugeot Citröen è il maggior investimento estero cinese (3 miliardi di euro) nell’industria automobilistica e uno dei più grandi in assoluto. Non è il primo, però. La strategia di espansione all’estero attraverso fusioni e acquisizioni è iniziata nel 2004, con la conquista della coreana Ssangyong da parte di Saic; sono seguite negli anni successivi quelle di marchi celebri – nel 2010, Volvo da parte di Geely e Manganese Bronze, il produttore dei famosi taxi neri londinesi – mentre sono passate inosservate altre acquisizioni, come quella del produttore britannico di motori Powertrain nel 2005, dell’olandese Duracar Holding da parte di Sino EV Tech nel 2010 e della svedese Weigl Transmission Plant da parte di Baic nel 2011.
L’industria automobilistica cinese è altamente frammentata, con oltre un centinaio di produttori locali, molti di piccolissime dimensioni, e per questo sin dagli anni Novanta, è stata interessata da numerosi piani di ristrutturazione per migliorare le economie di scala negli stabilimenti. Pechino ha investito ingenti capitali per ridurre il numero di costruttori a un massimo di quattro e creare altrettanti grandi “campioni nazionali” (probabilmente Saic, Faw, Dongfeng e Chang’an), ciascuno con vendite annue superiori ai due milioni di veicoli e competitivi in mercati molto sensibili al prezzo, come quello domestico e quelli degli altri paesi in via di sviluppo in Africa, Asia ex sovietica e Medio Oriente. Le grandi imprese pubbliche sono però tuttora incalzate da tanti costruttori di minori dimensioni, alcuni di proprietà pubblica e altri privati, che hanno obiettivi più aggressivi, come quello di entrare anche in mercati più avanzati (soprattutto nel caso di Great Wall).
Sussistono infatti grandi differenze tra le diverse tipologie di produttori: quelli di proprietà pubblica – statale nel caso di Faw e Dongfeng, municipale per Baic e Saic – hanno stipulato da tempo accordi di joint venture con i maggiori produttori mondiali di auto al fine di acquisire rapidamente competenze tecnologiche e producono prevalentemente veicoli con il marchio del partner estero (o, secondo la tendenza più recente, con il marchio della joint venture) coprendo circa il 90 per cento mercato interno. Quelli di proprietà dei governi locali (come Chang’an e Guangzhou Motors) e i privati (tra cui i più grandi sono Byd, Geely e Great Wall) producono soprattutto veicoli con marchi propri, sono rimasti in gran parte indipendenti dai costruttori esteri e sono più ambiziosi nelle loro strategie di upgrading tecnologico. La casa più nota è Chery, che produce unicamente con i propri marchi.
E se sono soprattutto le acquisizioni a far notizia, in realtà il numero maggiore di operazioni corrisponde all’apertura di nuovi stabilimenti produttivi fuori dalla Cina. L’Europa, in particolare, rappresenta il 38% del numero totale di greenfield all’estero dal 2003 — ventisei investimenti — contro soltanto sei acquisizioni. I principali Paesi europei di destinazione sono Regno Unito, Italia, Germania e Svezia. Diverse anche le motivazioni delle operazioni. Le grandi imprese pubbliche — che per motivi di governance interna devono essere profittevoli, ma soprattutto dimostrare di saper realizzare in tempi brevi i grandi volumi stabiliti dalle politiche industriali di Pechino – prediligono una strategia di crescita esterna attraverso acquisizioni di grandi case produttrici per ottenere competenze, accedere a reti di vendite e mercati internazionali. È il caso dell’accordo tra Dongfeng e Psa, che prevede una collaborazione tecnologica per sviluppare e produrre veicoli a basso costo e di dimensioni contenute, da destinare ai mercati del Sud-Est asiatico, oggi in maggior espansione. I produttori più piccoli e indipendenti, invece, preferiscono strategie di crescita organica attraverso acquisizione di specifiche competenze tecnologiche necessarie per sviluppare una propria tecnologia di produzione.
I frutti degli investimenti
Quali sono gli effetti di questi investimenti? Non è facile rispondere in maniera soddisfacente, soprattutto perché le esperienze sono recenti e i numeri infimi: a fronte di oltre 20 milioni di veicoli prodotti complessivamente dai produttori cinesi nel 2013, poche migliaia escono da fabbriche localizzate all’estero. Non c’è dubbio che alcuni investimenti si sono conclusi male. Per esempio, l’acquisizione di Ssangyong da parte di Saic è fallita per problemi di governance interna (i manager cinesi non hanno saputo sostituire efficacemente i loro predecessori coreani) e di rivendicazioni salariali (il socialismo di mercato mal si concilia con i sindacati marxisti). In alcuni casi non è neppure stato possibile concluderle (Saab). E in molti casi si tratta di operazioni di scala modesta, destinate inizialmente a testare le acque – per esempio Great Wall in Bulgaria – prima di entrare sul mercato europeo.
Lavoratrice cinese in una fabbrica Volvo a Chengdu, nel Sichuan (Cina)
La giuria deve ancora pronunciarsi sull’affare finora più importante, quello della Volvo. Grazie all’investimento di Geely, la marca svedese sta cercando di recuperare il lustro di un tempo – la produzione è passata da 369mila unità nel 2010 a 420mila nel 2012. Ma conciliare due modelli culturali e manageriali non è semplice, soprattutto quando Li Shufu, il capo della Geely abituato all’esecuzione rapida, non parla inglese, mentre gli svedesi, portati a decidere in maniera consensuale, non parlano cinese. Anche la burocrazia cinese ci mette del suo – la Volvo viene considerata un’impresa estera e per investire in Cina è pertanto sottoposta ai corrispondenti obblighi di legge. Decideranno i consumatori cinesi: al momento di acquistare una macchina di lusso, apprezzeranno le Volvo made-in-Chengdu, prossime a uscire dalle catene di montaggio, oppure continueranno a preferire l’import, garanzia di maggiore qualità?
Quali sono le implicazioni per le imprese occidentali? Le iniezioni di liquidità sono oggi certamente benvenute, ma il timore è che siano il preludio a una possibile perdita di leadership tecnologica. In realtà, le acquisizioni cinesi sono un segnale di debolezza tecnologica, organizzativa e manageriale. In un settore a medio-alta tecnologia come l’automotive, i produttori cinesi investono ancora poco in ricerca e sviluppo (tabelle 1 e 2, in fondo), e questo si riflette in una (al più) scarsa redditività. Senza le competenze dei grandi produttori mondiali, le imprese cinesi non sono oggi in grado di competere, né in casa, né tantomeno all’estero: le vendite in Cina sono aumentate nel 2013 del 16 per cento, arrivando a 18 milioni di unità, ma soprattutto di modelli occidentali, mentre le esportazioni di auto dalla Cina sono scese nello stesso anno del 7,5 per cento, secondo i dati diffusi dall’associazione nazionale dei produttori.
Produzione Volvo in Cina
Inoltre, per le multinazionali collaborare con imprese dei paesi emergenti apre la possibilità di entrare in nuovi mercati dove la domanda è in forte crescita e sarà in futuro sempre meno sensibile al prezzo e sempre più alla qualità e al design. Con una domanda in forte calo in Europa e negli altri mercati avanzati, entrare nei mercati emergenti è oggi indispensabile.
Le strategie delle case occidentali contemplano già un riorientamento geografico dei mercati di sbocco – il cosiddetto global push – ma devono anche adattare una quota crescente del loro export alla domanda dei mercati emergenti: i vecchi modelli decotti sui mercati avanzati non possono reggere a lungo, e neppure modifiche marginali sono sufficienti.
* articolo originariamente pubblicato su www.lavoce.info con il titolo di “L’auto cinese: un gigante finanziario con poca tecnologia”