Ultime notizie
Martedì 19 febbraio i manifestanti antigovernativi thailandesi circondano la sede provvisoria dell’ufficio del primo ministro, Yinglukck Shinawatra, l’ufficio nell’area nord della capitale dove l’esecutivo ha spostato la sua attività dopo che in dicembre i manifestanti hanno circondato la sede ufficiale del governo. A guidare un convoglio di 200 automobili è stato il leader della protesta Suthep Thaugsuban, segretario generale del Comitato di Riforma del Popolo democratico (Pdrc). Ma Yingluck e il suo governo ad interim non sono nell’ufficio. La polizia attacca e il bilancio di fine giornata è di almeno 4 morti e 64 feriti. Il giorno precedente la polizia aveva tentato di riconquistare il controllo della zona attorno alla sede del governo, tentativo che ha provocato uno scontro a fuoco che ha causato cinque morti, un poliziotto e quattro dimostranti.
Perché si protesta
I manifestanti, in rivolta dallo scorso novembre, puntano a paralizzare l’attività del governo per costringere la primo ministro Yingluck alle dimissioni. Ma il vero obiettivo delle proteste è il fratello Thaksin Shinawatra, l’ex primo ministro fuggito all’estero per evitare una condanna a due anni per abuso di potere. Quello di Shinawatra – vincitrice delle elezioni del 2011 – sarebbe, per i dimostranti, nient’altro che il governo ombra del fratello Thaksin, in esilio dal 2006 dopo essere stato rovesciato da un colpo di stato.
Quando sono scoppiate le rivolte
Le manifestazioni sono state scatenate dall’approvazione il primo novembre 2013 di una legge che cancellerebbe i reati politici successivi al golpe del 2006 che ha rovesciato Thaksin. E cancellerebbe quindi anche la sua condanna per corruzione, emessa nel 2008.
Cosa è successo in questi mesi
Per tentare di calmare le proteste, il premier Yingluck Shinawatra il 9 dicembre 2013 ha sciolto il governo e convocato elezioni anticipate per il 2 febbraio. Ma nel giorno delle elezioni, i manifestanti anti governativi hanno bloccato diversi seggi. Circa il 10% dei seggi elettorali è rimasto chiuso e centinaia di dimostranti sono scesi in strada.
Il Partito democratico ha chiesto quindi alla Corte costituzionale thailandese l’annullamento del voto, ritenuto incostituzionale nel suo svolgimento. La Costituzione prevede infatti che le operazioni di voto si completino nell’arco di un’unica giornata, cosa che non è accaduta. Ma la Corte costituzionale ha rifiutato lo scorso 12 febbraio la richiesta di annullamento, dando la colpa del mancato compimento al blocco provocato dai manifestanti nei seggi elettorali.
Ma i dimostranti sono contrari alle elezioni e chiedono la formazione un «people council», una sorta di assemblea popolare, senza passare dalle urne, che abbia lo scopo di riformare il sistema politico. E puntano a paralizzare l’attività del governo per costringere il primo ministro Yingluck alle dimissioni.
Il Paese resta così in sospeso, mentre il governo ha dichiarato 60 giorni di stato di emergenza a Bangkok e nelle province adiacenti.
Lunedì 17 febbraio la Commissione elettorale ha dichiarato che non si possono organizzare nuove elezioni finché non verrà annulato il rischio di nuovi sabotaggi da parte dei dimostranti. Il Governo dall’altro lato spinge perché nuove elezioni si tengano al più presto.
Intanto, l’agenzia nazionale anti-corruzione ha deciso di accusare la prima ministra thailandese Yingluck Shinawatra di negligenza nell’ambito di un controverso programma di sussidio ai produttori di riso. Secondo la Commissione, Yingluck non ha considerato gli avvertimenti ricevuti, che la mettevano in guardia sull’aumento della corruzione e le perdite finanziarie che quel tipo di politica stava provocando nel Paese.
Ultime notizie
Continuano le manifestazioni di protesta nelle città della Bosnia Erzegovina e nascono i primi comitati autonomi di cittadini. Iniziate nelle cittadine ex industriali di Tuzla, Brčko, Bihać, le manifestazioni si sono diffuse anche nella capitale Sarajevo e in cittadine periferiche come Zenica, Mostar, Kakanj, Sanski Most, Gračanica, Zavidovići, Bugojno e Orašje. Venerdì 7 febbraio è stato il giorno di maggiore violenza. Rivolte sono scoppiata in una trentina di città della Bosnia-Herzegovina. Sono circa 5mila le persone che in quella data hanno partecipato alle rivolte nella città di Tuzla, nel nord del Paese, e circa 3mila a Sarajevo, la capitale, dove i manifestanti hanno tirato sassi contro la stazione della polizia hanno incendiato il palazzo del governo del cantone Sarajevo, la sede del municipio, la Presidenza della Bosnia Erzegovina. La polizia ha risposto sparando proiettili di gomma sulla folla. A Zenica, nel cetro della Bosnia, i manifestanti hanno dato fuoco al palazzo del governo locale. L’8 febbraio si è dimesso il premier cantonale, Suad Zeljkovic.
Perché si protesta
I manifestanti accusano il governo di corruzione e nepotismo. Ma si protesta anche per la mancanza di prospettive, in una terra duramente colpita da una lunga guerra terminata solo nel 1995. Da vent’anni la Bosnia Erzegovina attende un cambiamento che non arriva, spossata da pessime condizioni economiche (la disoccupazione, altissima, è oltre il 40%, tra i giovani sale al 60%; anche se occorre tenere conto di chi un lavoro ce l’ha, senza dichiararlo) e da una classe politica considerata incapace e corrotta.
Quando sono scoppiate le rivolte
Come raccontato da Rodolfo Toè su Linkiesta, mercoledì 4 febbraio a Tuzla 500 lavoratori rimasti senza lavoro dopo la chiusura delle fabbriche in cui erano impiegati, si presentano davanti al palazzo del governo cantonale, una delle dieci unità amministrative in cui è suddivisa la Federacija Bosne i Hercegovine. Chiedono che alla loro situazione sia trovata una soluzione. Il primo ministro del cantone, Sead Causevic, sbatte la porta in faccia. Rifiuta di ricevere i disoccupati, sostenendo che «tutto quello che chiedono sono maggiori sussidi», e che questa richiesta è «inaccettabile, per le fragili finanze dell’amministrazione locale». A quel punto i manifestanti decidono di irrompere nella sede del governo locale, sfondando i cordoni di sicurezza. La polizia passa subito all’uso della forza. I manifestanti, dopo la giornata iniziale, si riorganizzano. Annunciano che non desisteranno dalla lotta. Immediatamente, già il giorno successivo (giovedì), in alcune delle principali città bosniache (Sarajevo, Mostar, Bihac) si organizzano dei cortei a sostegno dei lavoratori di Tuzla.
Cosa è successo nei giorni scorsi
Dopo gli avvenimenti del 7 febbraio la situazione si è stabilizzata. In alcuni casi, come nel Cantone di Sarajevo o in quello di Bihac, le proteste hanno persino portato alle dimissioni (o alla fuga) del primo ministro del cantone.
La protesta si sta strutturando e in diverse città sono nati comitati autonomi di cittadini, (chiamati «plenum građana»). Sono 4 le assemblee nate a Sarajevo nello spazio pubblico della Casa dei Giovani, Dom Mladih. Vi partecipa un migliaio di persone. Queste, secondo quanto riporta Limes, sono le richieste scritte dai comitati: la formazione di un governo tecnico ad interim per il cantone di Sarajevo; la revisione delle procedure di privatizzazione e adeguamento salariale; la formazione di un comitato indipendente di inchiesta che chiarisca le responsabilità rispetto agli eventi di venerdì 7 febbraio; il rilascio dei manifestanti arrestati. Concluso il ciclo di consultazioni pubbliche tra cittadini, fino a venerdì 21 l’assemblea si divide in di gruppi di lavoro. Anche intellettuali e professori universitari stanno raggiungendo Sarajevo per partecipare alle assemblee pubbliche.
È la prima volta che avvengono scontri così violenti dalla fine del conflitto e la prima volta che persone di diverse etnie scendono in piazza insieme, fianco a fianco.
Ultime notizie
Nella notte tra il 18 e il 19 febbraio il governo del presidente Viktor Yanukovich ha lanciato un assalto contro le barricate e gli accampamenti dei manifestanti antigovernativi, con l’obiettivo di smantellarli definitivamente. Dopo una tregua concessa nella notte, nella mattina di giovedì 20 febbraio sono ripresi gli scontri. Si parla già di 10 morti e dozzine di feriti. L’assalto delle forze armate è giunto dopo il fallimento delle trattative in corso con l’opposizione (il Parlamento ha rifiutato il 18 febbraio di mettere all’ordine del giorno la discussione della proposta di riforma costituzionale chiesta dall’opposizione per ridurre i poteri del Presidente).
Perché si protesta
Iniziata sotto la stella europeista, in opposizione alla decisione del Presidente Yanukovich di non firmare l’Accordo di associazione (Aa) con l’Unione europea, la protesta si è trasformata nei mesi successivi in qualcosa di ben diverso. Come ha spiegato Stefano Grazioli su Linkiesta alla base della rivolta c’è la volontà di cambiamento di fronte a una classe dirigente cleptocrate e a un sistema economico oligarchico che ha bloccato lo sviluppo del Paese, lasciando gran parte della popolazione solo con l’illusione di essere uscita dal tunnel del comunismo. Gli ucraini sono scesi in strada per mandare a casa Victor Yanukovich, che non ha mantenuto nessuna delle promesse elettorale dopo la vittoria del 2010 e che ha ridotto il Paese a una succursale della propria famiglia e degli oligarchi a lui vicini.
Quando sono scoppiate le rivolte
A scatenare la protesta in Ucraina è stata la decisione del presidente Victor Yanukovich, lo scorso novembre, di non firmare l’Accordo di associazione (Aa) con l’Unione Europea, facendo fallire il vertice dell’Eastern partnership a Vilnius. Anziché svoltare verso Bruxelles, il capo di Stato ha preso la strada di Mosca, firmando a metà dicembre consistenti accordi economici con Vladimir Putin. La Russia ha l’obbiettivo di integrare prossimamente l’Ucraina nell’Unione euroasiatica.
Cosa è successo negli ultimi mesi. Le tappe
– Dopo aver rifiutato di sottoscrivere l’alleanza commerciale con l’Europa a fine novembre, martedì 17 dicembre il presidente Yanukovich firma un accordo con la Russia che prevede l’abbassamento del prezzo importato da Mosca e 15 miliardi di dollari russi investiti in titoli di stato ucraini.
– Il 24 dicembre la Russia versa i primi tre miliardi di dollari a Kiev.
– Le proteste non si fermano, la gente continua a radunarsi in piazza Maidan. Il 21 gennaio entrano in vigore le leggi anti protesta approvate in tutta fretta dal Parlamento ucraino per alzata di mano e senza dibattito. Le norme prevedono che chi partecipa a manifestazioni non autorizzate, chi monta delle tende in un luogo pubblico, chi protesta a volto coperto o indossando un casco, o prende parte a un carosello con più di cinque auto rischia fino a cinque anni di carcere.
– Le leggi anti protesta infiammano piazza Maidan. Il 22 gennaio la protesta ha le prime vittime: tre manifestanti uccisi, due dei quali raggiunti da proiettili. Il 24 gennaio l’opposizione guidata dal campione di boxe e leader del partito di opposizione Udar Vitali Klitschko lancia un ultimatum al governo e iniziano i negoziati faccia a faccia con Yanukovich. Si chiedono elezioni anticipate, abrogazione delle leggi anti protesta e amnistia per i manifestanti arrestati. Altrimenti si «passa all’offensiva».
– Il 25 gennaio Yanukovich propone a uno dei leader dell’opposizione Arseny Yatsenyuk l’incarico di premier al posto di Nikolai Azarov. Yatsenyuk rifiuta.
– Il 29 gennaio il primo ministro ucraino si dimette e Yanukovich affida a Serhiy Arbuzov, l’incarico di primo ministro ad interim. Il parlamento ucraino abroga con 361 voti a favore e solo 2 contrari le leggi anti-proteste approvate due settimane prima. Il Parlamento approva una legge sull’amnistia a favore dei manifestanti arrestati. Si concede la liberazione dei dimostranti in cambio dell’abbandono di tutti gli edifici occupati e dello smantellamento delle barricate. Ma per l’opposizione è chiedere troppo.
– Il 30 gennaio, con le proteste ancora in corso, la Russia sospende l’attuazione del piano di salvataggio firmato con Kiev a fine dicembre (15 miliardi di dollari). Washington intanto pensa a sanzioni contro il governo di Kiev.
– Il 14 febbraio i I 234 manifestanti antigovernativi ucraini arrestati nel corso delle proteste delle ultime settimane vengono scarcerati e messi agli arresti domiciliari. Per la liberazione definitiva il governo chiede lo smantellamento delle barricate e l’abbandono degli edifici occupati, come prevede la legge varata il 29 gennaio.
– L’opposizione ucraina ribadisce il rifiuto di qualsiasi tipo di compromesso sull’amnistia e intende portare in Parlamento la richiesta di tornare alla costituzione del 2004, basata su poteri più limitati del Presidente.
– Lunedì 17 febbraio la Russia, che aveva sospeso l’erogazione degli aiuti promessi in dicembre – 15 miliardi di dollari per tenere a galla il governo – riapre i rubinetti. Afferma che una tranche degli acquisti di titoli ucraini, del valore di 2 miliardi di dollari, scatterà entro la fine della settimana. È il segnale per molti che Yanukovich ha assicurato a Putin di poter riprendere in mano la situazione nel Paese.
– Martedì 18 febbraio un corteo di dimostranti tenta di avvicinarsi al Parlamento dopo aver ricevuto la notizia che la proposta di modifica costituzionale avanzata dall’opposizione non è stata messa in agenda. La polizia passa all’attacco e respinge con la forza i manifestanti. Il governo dà un ultimatum per le 18:00 dello stesso giorno ai manifestanti perché lascino la piazza. Da quel momento la polizia inizia un assalto che continuerà per tutta la notte.
– La sera del 18 febbraio il leader dell’opposizione Klitschko si reca negli uffici presidenziali per cercare una soluzione alla crisi. Tornato al Maidan dopo l’incontro, Klitschko spiega ai giornalisti di aver chiesto a Yanukovych di fermare l’azione della polizia e di prevenire ulteriori morti, ma che l’unica risposta del presidente è stata lo stop immediato alle proteste e lo smantellamento delle barricate.
– Il 19 febbraio, mentre Yanukovich concede una tregua ai manifestanti, la Russia blocca di nuovo la tranche da 2 mld, parte del prestito di 15 mld deciso a dicembre. Nella stessa sera il presidente ucraiano sostituisce il capo dell’esercito – e ministro della Difesa – con il capo della marina militare. La scelta giunge – sostengono le agenzie – dopo che l’ex ministro della Difesa aveva dichiarato di voler attaccare la parte più estremista dei manifestanti.
– Il 20 febbraio mattina riprendono gli scontri. Alle 10.30 il bilancio è già di 10 morti e dozzine di feriti
La situazione in Ucraina rischia di sprofondare ora in una guerra civile, in un Paese spaccato tra un est allineato con lo storico alleato russo e una parte – più giovane e dinamica – che chiede cambiamenti e avvicinamento all’Europa.
Ultime notizie
Almeno cinque giovani manifestanti dell’opposizione sono rimasti feriti da spari di arma da fuoco il 19 febbraio a Valencia, la terza città più importante del Venezuela. È successo quando un gruppo di uomini armati ha attaccato un corteo anti-chavista nel centro storico. I feriti hanno fra i 16 e i 23 anni, e la più grave è una ragazza raggiunta da una pallottola alla testa.
Il giorno precedente, Leopoldo Lopez, leader del partito di opposizione venezuelano Volontà Popolare si consegna alla giustizia dopo averlo annunciato su You Tube, chiedendo alla popolazione di accompagnarlo. È un bagno di folla. Si di lui pendono le accuse di omicidio e incitamento alla violenza nel corso delle proteste delle settimane precedenti, in cui sono morte tre persone. Le vittime sono Juan Montoya, dirigente di un colectivo (gruppo progovernativo), e due studenti che partecipavano alla protesta: Alejandro Dacosta e Neyder Arellano Sierra.
Leopoldo Lopez, che si è consegnato martedì alla giustizia, comparirà di fronte a una corte civile per rispondere delle accuse che gli sono state mosse: che includono omicidio e incitamento alla violenza nel corso delle proteste violente della scorsa settimana, in cui sono morte tre persone. – See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/venezuela-ancora-proteste-a205…
Leopoldo Lopez, leader dell’opposizione, nel video registrato prima di consegnarsi alla giustizia
Perché si protesta
per protestare contro l’alto tasso di criminalita, l’inflazione al 56% e la carenza di beni di prima necessità, in un paese ricco di petrolio. Maduro, il delfino dell’ex presidente Chavez, sta affrontando la più profonda crisi sociale da quando è stato eletto, nell’aprile del 2013.
La parte più radicale dell’opposizione, guidata proprio da Lopez, ha appoggiato i manifestanti, incoraggiando anche un’occupazione continuativa delle piazze fino alla caduta del governo, al motti la “La Salida” (in italiano “Fuori” ad indicare l’uscita di scena). – See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/venezuela-ancora-proteste-a205…
Gli studenti manifestano contro l’alto tasso di criminalita, l’inflazione al 56% e la carenza di beni di prima necessità, in un paese ricco di petrolio.
La parte più radicale dell’opposizione guidata da Lopez, ha incoraggiato i manifestanti a continuare l’occupazione delle piazze fino alla caduta del governo.
Dalla morte di Hugo Chavez, e la conseguente ascesa al potere di Maduro, la situazione del Paese è costantemente peggiorata. Il tasso di inflazione ha superato il 50 per cento, e le riserve valutarie sono state velocemente consumate nel tentativo di evitare collassi peggiori.
Quando sono scoppiate le manifestazioni
Il 3 febbraio gli studenti dell’opposizione sono scesi in piazza per la prima volta.
Cosa è successo negli ultimi giorni
– Il 9 febbraio il governo di Nicolas Maduro ha limitato l’acquisto della carta in Venezuela e almeno 10 quotidiani regionali sono spariti dalla circolazione. Lo denuncia l’Associazione dei giornalisti venezuelani all’estero, secondo cui per lo stesso motivo altri 14 giornali del Paese sono stati costretti a ridurre il numero delle pagine (El Nacional ha diminuito le sue pagine del 40%, El Impulso, uno dei più antichi del Paese, è arrivato a pubblicare appena una pagina).
– Il 16 febbraio il presidente Maduro ha organizzato un corteo di suoi supporters per le strade di Caracas e ha fatto trasmette l’evento in diretta dalla tv di stato.
– Il 17 febbraiolo stesso Maduro ha ordinato a tre funzionari dell’ambasciata degli Stati Uniti di abbandonare il Paese. «Vadano a cospirare a Washington», ha detto Maduro in una intervista televisiva. I tre avrebbero incontrato gli studenti durante le recenti proteste che hanno provocato 3 morti e più di 60 feriti.
– Il Segretario di Stato Usa John Kerry ha rilasciato negli stessi giorni una dichiarazione in cui si è detto preoccupato dell’escalation di tensione in Venezuela, in particolare dell’arresto di alcuni oppositori e del mandato contro Leopoldo Lopez, leader dell’opposizione.
– Il 18 febbraio Leopoldo Lopez, leader dell’opposizione si consegna alla giustizia. Lo accompagna fino al ministero della Giustizia un bagno di folla.
Maduro, il delfino dell’ex presidente Chavez, sta affrontando la più profonda crisi sociale da quando è stato eletto, nell’aprile del 2013. Il Presidente ha subito definito le proteste in corso un «tentativo di golpe» supportato dalle destre.