Legge 40, la fecondazione interrotta in tribunale

Cade un altro pilastro

Il divieto di fecondazione eterologa della legge 40 è incostituzionale. Lo dice la Corte Costituzionale. Dal 9 aprile 2014, anche le coppie sterili potranno accedere alla procreazione medicalmente assistita. Si tratta dell’ennesimo provvedimento che ridisegna la legge 40 del 2004 e che fa cadere uno dei pilastri dei quella che Le Monde definì subito “legge burqa”. 

Da questo momento, quindi, sarà possibile ricorrere al materiale genetico di un terzo donatore. E qualsiasi uomo fertile potrà donare il proprio seme. Resta ancora il divieto di ricerca sugli embrioni.

LA NOSTRA INCHIESTA SUI DIECI ANNI DELLA LEGGE 40 E L’“ESILIO PROCREATIVO” PUBBLICATA IL 28 FEBBRAIO 2014

La legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita compie dieci anni, ma pochi in Italia festeggiano. Sarà perché in questi anni, tra sentenze dei tribunali e della Corte costituzionale, è stata (quasi) smontata pezzo per pezzo. O magari perché in questa decade i divieti contenuti nei 18 articoli del testo hanno reso difficile la vita di molte coppie desiderose di avere un figlio. Costringendo tante ad andare all’estero. Ora, l’8 aprile, potrebbe arrivare la sentenza della Consulta che smonterebbe anche l’ultimo pilastro della legge: il divieto di fecondazione eterologa

1. Una legge “smontata” nelle aule di tribunale
Quando il testo venne approvato, il 19 febbraio del 2004, al governo c’era Silvio Berlusconi, al ministero della Sanità Girolamo Sirchia (passato alla storia per la legge che vieta il fumo nei locali pubblici) e alla presidenza della Cei, la Conferenza episcopale italiana, Camillo Ruini. La legge 40, che Le Monde definì subito “legge burqa”, sulla carta aveva l’obiettivo di «favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità o dalla infertilità». Ma di fatto poneva strettissimi limiti. Primo fra tutti (vedi articolo 4): il ricorso alle tecniche di procreazione medicalmente assistita è consentito solo nei casi di sterilità o di infertilità documentate con un atto medico. Ed è inoltre vietato il ricorso a tecniche di tipo eterologo, cioè con il seme o l’ovulo di una persona esterna alla coppia. Non solo, all’articolo 5 si aggiunge che possono accedere alle tecniche solo “coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi”. Quindi niente omosessuali.

Al capo VI della legge si trovano poi le misure a tutela dell’embrione. Vietata la sperimentazione, vietata la crionservazione, l’impianto deve essere “unico e contemporaneo, comunque non superiore a tre”, ma “la riduzione embrionaria di gravidanze plurime” è vietata. Tradotto: se produci tre embrioni, li devi impiantare tutti e tre insieme; e se attecchiscono tutti e tre, non puoi tornare indietro. Anche se uno degli embrioni è malato, visto che nel testo è vietata l’analisi preimpianto. Fermo restando che qualunque medico può esercitare l’obiezione di coscienza e non mettere in pratica la fecondazione.

Ma già a maggio, due mesi dopo l’entrata in vigore (10 marzo 2004), la legge 40 veniva impugnata davanti a un tribunale. In dieci anni di vita è successo 28 volte. Dieci anni in cui il testo è stato attaccato e contestato nei tribunali di tutta Italia. Nel 2005 i Radicali depositarono in Cassazione la richiesta di un referendum abrogativo. La Corte costituzionale ritenne ammissibile ammissibile votare solo per l’abrograzione totale, ma non si raggiunse il quorum. Lo stesso Ruini invitò i cattolici a non presentarsi alle urne, in difesa del “diritto alla vita”.  

Ma se non ci è riuscito un referendum a riscrivere la legge ci hanno pensato i tribunali. Prima a Bologna, poi a Salerno, poi ancora due ordinanze hanno consentito per la prima volta l’accesso alla procreazione medicalmente assistita a coppie non sterili ma portatrici di malattie. Nel 2012, all’ospedale di Cagliari, viene addirittura imposto di effettuare l’analisi preimpianto sugli embrioni di una coppia affetta da talassemia, di impiantare in utero solo quelli sani e di rivolgersi anche a strutture esterne pur di garantire la prestazione sanitaria. L’ultima pronuncia, il 14 gennaio 2014 a Roma, solleva poi il dubbio di costituzionalità sull’articolo 1 della legge.

Nel 2009 interviene anche la Corte costituzionale, dichiarando illegittimo l’articolo 14 sul divieto di crioconservazione degli embrioni, cancellando il limite dei tre embrioni producibili e l’obbligo dell’impianto contemporaneo di tutti gli embrioni. Ma, soprattutto, la Consulta ribalta l’impianto ideologico dell’intera legge, facendo emergere come i diritti dell’embrione e del concepito siano da tutelare in subordine a quelli della donna e non viceversa. E anche la Corte europea dei diritti dell’uomo dice la sua: prima boccia la legge stessa e poi rigetta il ricorso presentato dal governo Monti, aprendo di fatto la possibilità a una coppia fertile ma portatrice sana di fibrosi cistica di selezionare gli embrioni dopo essersi sottoposta alla fecondazione artificiale.

Ora resta un ultimo tassello. L’8 aprile 2014 la Consulta si pronuncerà sul divieto di fecondazione eterologa, sul divieto di utilizzo degli embrioni per la ricerca scientifica e la donazione degli embrioni da parte di una coppia e sul divieto di revoca del consenso alla procedura di procreazione assistita se non prima della fecondazione dell’ovulo. In caso positivo, la legge verrebbe in questo modo smontata di sana pianta.

2. “Esilio procreativo”
Ma se c’è chi in questi anni si è battuto nei tribunali contro la legge 40, c’è anche chi ha deciso di dribblare la legge e rivolgersi all’estero. Secondo i dati raccolti dall’Osservatorio sul turismo procreativo, solo nel 2011 le coppie italiane che hanno deciso di andare all’estero per un trattamento di procreazione assistita sono state 4mila. Di queste, circa la metà lo fa per ricorrere alla fecondazione eterologa, di fatto l’unico divieto ancora esistente in Italia (tanto da portare a neologismo “fondazione esterologa”); l’altra metà invece sceglie di migrare anche se deve sottoporsi a trattamenti disponibili nel nostro Paese. Il motivo: tra sentenze, pronunce e modifiche, non si capisce cosa si può fare e cosa non si può fare.

Rossella Bartolucci è presidente della onlus “Sos Infertilità”, che dal 2006 fornisce informazioni di ogni tipo a chi voglia effettuare un trattamento di fecondazione medicalmente assistita. «Abbiamo un numero verde», racconta, «tramite il quale diamo consulenza gratuita continua a chi ha confusione su cosa si possa o non si possa fare in Italia». Dieci anni fa Rossella ha avuto due gemelli tramite la fecondazione medicalmente assistita omologa. Era il 2003 e in Italia si parlava già di una legge per regolamentarla. «Per sfuggire all’arrivo imminente della legge 40, ho deciso di andare a Bruxelles. Non volevo rimanere intrappolata in Italia. E proprio qualche giorno prima dell’approvazione della legge, sono nati i miei due gemelli».

E non è nemmeno un problema di qualità dei trattamenti se molte coppie decidono di andare all’estero. «In Italia ci sono grandi centri di eccellenza sia pubblici sia privati», dice Rossella, «il vero problema è stata la legge. Prima della sentenza della Corte costituzionale del 2009 una donna doveva comunque andare all’estero per avere buone possibilità di arrivare alla gravidanza». Il limite massimo dei tre embrioni e l’obbligo dell’impianto unico e contemporaneo «per le donne più grandi significava avere scarse possibilità di restare incinte, dovendo quindi ricominciare tutta la terapia da capo qualora la fecondazione non fosse andata a buon fine, mentre per quelle più giovani significava incorrere in pericolose gravidanze plurigemellari».

Dal 2009, invece, chi non deve effettuare la fecondazione eterologa può non andare all’estero, senza rischiare nulla e con le stesse possibilità di concepire. «Il medico sceglie la terapia ormonale adatta alla paziente», spiega Rossella, «e quando vengono prelevati gli ovociti, si decide quanti fecondarne e quanti trasferirne». Quelli in più vengono congelati. Un vantaggio soprattutto per le donne con qualche anno in più per le quali spesso era necessario ripetere la procedura, compreso il ciclo di trattamento farmacologico con non pochi effetti collaterali.

Ma la scelta di andare all’estero in alcuni casi è obbligata. Essendo vietato il ricorso a gameti esterni alla coppia, quando uno dei due partner soffre di sterilità totale bisogna per forza (almeno per ora) spostarsi nei Paesi in cui la fecondazione eterologa è permessa. La scelta varia in base al trattamento che si cerca. Ci sono Paesi in cui è permessa solo la donazione di gameti maschili, altri in cui è consentita la donazione di gameti sia maschili sia femminili, altri ancora in cui è possibile anche ricorrere alla donazione degli embrioni. Ma l’impossibilità di effettuare il trattamento in patria ha finito col creare una distinzione tra aspiranti genitori: quelli che hanno capacità economiche sufficienti ad affrontare viaggi e costose cure non convenzionate e quelli che non ce le hanno e sono costretti alle limitazioni della legge italiana. Più che di “turismo procreativo”, ripete Susanna Lollini, che fa parte del Gruppo legale dell’associazione famiglie arcobaleno, «si tratta di “esilio procreativo”, perché del divertimento del turismo non ha proprio nulla». 

Ci sono casi in cui si ha bisogno di un donatore di sperma, «cosa che avviene per gravi problemi di salute, dal criptorchidismo al tumore, e non per scegliere il sesso o il colore dei capelli del bambino», continua Rossella, «e per questo molti italiani vanno in Svizzera, soprattutto dal Nord Italia». In Spagna, invece, è possibile sia la donazione di gameti femminili e maschili sia di embrioni. E «gli ultimi dati dicono che il 63% delle coppie che in Spagna fa la ovodonazione è italiana. Con costi superiori a 10mila euro, più il viaggio, l’albergo ecc. Pensiamo a quanti soldi sono stati spesi in tutti questi anni. Gli altri Paesi più battuti dagli italiani sono Ucraina, Repubblica Ceca, Grecia, Belgio e anche Turchia, dove si va per fare la diagnosi preimpianto».

Giorgia, nome di fantasia, ha una bambina avuta dalla fecondazione eterologa effettuata in un centro specializzato in Svizzera. «Mio marito è affetto da azoospermia, cioè assenza totale di spermatozoi», racconta. «Dopo aver fatto la prima visita in Italia e aver accertato una sterilità non guaribile, abbiamo deciso di andare all’estero». Con il faldone degli esami sotto il braccio, hanno iniziato un percorso lungo, tortuoso e costoso. «Non c’è una scelta del donatore in base all’intelligenza o altro come molti pensano», precisa, «al massimo viene scelto qualcuno che abbia un fenotipo simile a quello dei genitori». Al momento della fecondazione, Giorgia aveva 35 anni, era fertile e non aveva alcun problema. «Così all’inizio hanno scelto di praticare una inseminazione intrauterina». Dopo il primo trasferimento, torna in Italia e spera di vedere di lì a poco il test di gravidanza positivo. Ma la tecnica non va a buon fine. Una, due, tre volte. «Così abbiamo scelto di passare a tecniche più complesse, con la fecondazione in vitro. E al secondo tentativo sono rimasta incinta».

E una volta tornati in Italia? Basta non dichiarare nulla, se non al proprio medico. La legge 40 non permette la fecondazione eterologa, anche se, all’articolo 9, viene poi vietato il «disconoscimento della paternità e l’anonimato della madre nel caso in cui una coppia sia ricorsa alla procreazione eterologa».

Stesso discorso vale per la cosiddetta maternità surrogata, quando una donna si fa carico di una gravidanza, per conto di una coppia sterile, omosessuale o di un single, fino al parto. La fecondazione (in vitro) viene effettuata con seme e ovuli della coppia richiedente o, se necessario, di donatori e donatrici. Anche in questo caso in tanti fanno le valigie. «da anni assistiamo a quello che viene chiamato forum shopping», dicono gli avvocati Lorenzo Puglisi e Lisa Armenio, che seguono diverse coppie che hanno scelto di spostarsi all’estero per avere un figlio. «C’è cioè la tendenza a spostarsi in Stati la cui giurisdizione è più favorevole. A pochi chilometri dai nostri confini ci sono Stati come l’Ucraina o la Spagna, che hanno legislazioni molto lontane dai nostri standard». Si tratta di viaggi e trattamenti costosi. Alla fine, tra una cosa e l’altra, si possono spendere fino a 100mila euro per avere un bambino.

Al rientro in Italia, però, possono sorgere problemi. Una volta tornati, i neogenitori devono ottenere il riconoscimento da parte dello Stato italiano del certificato di nascita dei bambini e quindi dell’attestazione di genitorialità. Può succedere che questo non avvenga, e che la coppia sia accusata di “alterazione di stato di nascita”, reato punito con la reclusione da tre a dieci anni. Ma finora nessuno è mai stato condannato. E anche nel caso della maternità surrogata la legge 40 è superata. La sentenza più recente, quella della quinta sezione penale del tribunale di Milano, ha ritenuto non colpevoli di alterazione di stato due coniugi che erano andati fino a Kiev, Ucraina, per affidarsi a una madre surrogata e avere un bambino. «Si tratta di contratti legali in quei Paesi», spiegano Puglisi e Armenio, «ma se l’ufficiale di Stato si insospettisce, è tenuto a non trascrivere l’atto di nascita e a privilegiare l’ordine pubblico italiano».

Ma non è solo per la fecondazione eterologa e la maternità surrogata che i pazienti italiani decidono di andare all’estero. Lo dice il rapporto dell’Osservatorio sul turismo procreativo: accanto alle coppie che vanno all’estero per trattamenti ancora non permessi in Italia, ce ne sono altrettante che vanno all’estero per eseguire trattamenti omologhi, senza ricorso a gameti esterni alla coppia. Le diverse sentenze, i rinvii, l’intervento della Corte di Strasburgo hanno generato confusione nei pazienti. Così, anche chi potrebbe scegliere di restare a casa, pensa di essere obbligato ad andare all’estero.

3. La procreazione medicalmente assistita nel Ssn
Secondo gli ultimissimi dati del Registro nazionale della procreazione medicalmente assistita, nel periodo 2005–2012 i cicli di trattamento iniziati sono stati 655.075 su 493.086 coppie trattate, 105.003 le gravidanze ottenute e 79.028 i bambini nati vivi, circa il 2% dei nati complessivamente in Italia.

In questi dieci anni, spiega Andrea Borini, presidente della Società italiana di fertilità e sterilità e medicina della riproduzione, Sifes, «ci sono stati meno risultati positivi per le donne intorno ai 40 anni, e un maggior numero di risultati non buoni per le donne più giovani». L’impianto unico di tutti e tre gli embrioni prodotti, poi, negli anni ha fatto crescere notevolmente il numero di gravidanze trigemine in Italia. Tanto che «se in Europa i casi di trigemine sono intorno all’1,1% massimo 2%, nel nostro Paese sono arrivate intorno al 10 per cento», continua Borini. «Io che faccio questo lavoro da molti anni, non trasferivo tre embrioni a una donna sotto i 35 anni dal 1995. Fino al 2004, quando è stata introdotta la legge». Se il centro dove avveniva il trattamento funzionava bene, aumentavano le probabilità che tutti e tre gli embrioni si impiantassero. Le alternative erano portare avanti una gravidanza multipla con tutte le complicazioni che comporta o procedere alla rimozione degli embrioni. Scelta non da poco, visto che «con l’eliminazione di un embrione si rischia di abortire del tutto, avere infezioni o conseguenze psicologiche, chiedendosi magari per tutta la vita come sarebbe stato il terzo figlio. Non è semplice, negli Stati Uniti questa pratica si fa con più disinvoltura, ma in Italia è più complicato».

I centri a cui rivolgersi in Italia si dividono in primo, secondo o terzo livello, in base alla tecnica di procreazione utilizzata. Nei centri di primo livello è possibile sottoporsi solo a tecniche meno sofisticate, come l’inseminazione semplice o intrauterina, che consiste nell’inserimento nella cavità uterina del liquido seminale, fresco o scongelato. Nei centri di secondo livello, invece, vengono eseguite anche tecniche più complesse, come la Fivet (Fertilization in vitro embryo transfert o fertilizzazione in vitro e trasferimento dell’embrione ) in cui la fecondazione avviene in vitro, all’esterno del corpo femminile, e l’embrione così ottenuto (uno o più) viene poi trasferito in utero, dove perché la gravidanza abbia inizio, deve annidarsi, e la Icsi (Intracytoplasmatic sperm injection o microiniezione intracitoplasmatica dello spermatozoo) dove lo spermatozoo viene facilitato a entrare nell’ovocita grazie a una micropipetta (tecnica particolarmente utile nei casi di infertilità maschile grave o di difficile fecondazione dell’ovocita a causa di un’eccesiva barriera esterna). Nei centri di terzo livello vengono eseguite pratiche che possono anche richiedere un’anestesia generale.

Complesso è anche il problema del trattamento farmacologico, richiesto per indurre l’ovulazione. Non tutti i farmaci infatti sono prescrivibili dal Ssn. Le gonadotropine, utilizzate per stimolare l’attività ovarica, sono a carico del Servizio sanitario ma solo entro certe condizioni. Spesso però, soprattutto per le donne in età più avanzata (sopra i 35 anni) – che sono la grande maggioranza di donne che si sottopone alla procreazione medicalmente assistita – i limiti imposti dal Ssn possono essere superati con facilità con la conseguenza che i farmaci (molto costosi) diventano a carico della paziente. Altri farmaci, come quelli usati per provocare una menopausa artificiale, sono a totale carico della paziente, con un costo che varia, a seconda della dose, tra i 200 euro in un’unica somministrazione, o sotto i 150 euro se in somministrazione frazionata.

Secondo la relazione del ministero della Salute sulla procreazione medicalmente assistita, una certa discrepanza si è creata anche tra le regioni italiane, con differenze di costi e di qualità notevoli. Maria Paola Costantini, avvocato e membro storico di Cittadinanzattiva che da tempo si occupa di questo argomento a sostegno delle coppie, scrive che «più del 60% delle prestazioni è erogato dal Sistema sanitario nazionale (Ssn) e il 53% dei centri è privato e concentrato nelle regioni del Centro-Sud, con la situazione paradossale del Molise dove non esiste alcun centro, né pubblico, né privato. È in aumento inoltre la migrazione interregionale (+25%) che si concentra verso regioni come Toscana, Lombardia, Emilia Romagna e Friuli Venezia Giulia, dove le coppie possono effettuare la fecondazione in strutture pubbliche o convenzionate pagando solo il ticket. Ma anche verso regioni come il Lazio, che attira soprattutto per la qualità dei centri. Proprio al Lazio e alla Sicilia spetta il primato per il maggior numero di centri privati: l’80% per la Sicilia e il 79% per il Lazio.

Per le coppie che vogliono avere un figlio con la procreazione assistita omologa, quindi, ormai i problemi non sono più tecnici, basta solo sapere a chi rivolgersi. I centri di eccellenza sono ormai numerosi, «mentre altri impediscono ancora di congelare gli embrioni e non permettono di produrre più di tre embrioni», avverte Borini. Quel che resta ora è un problema economico, perché in molti ospedali pubblici la lista d’attesta è lunga, e con la crisi economica le coppie hanno meno possibilità di permettersi trattamenti privati. 

4. Serve una nuova legge?
Il prossimo 8 aprile, ora, la Corte costituzionale potrebbe scardinare anche gli ultimi divieti imposti dalla legge 40: quello sulla fecondazione eterologa e sull’utilizzo degli embrioni per la ricerca scientifica o la loro donazione verso altre coppie. Cadute anche queste ultime proibizioni, della “legge burqa” non rimarrebbe granché, se non la consapevolezza dei disagi creati in questi anni alle coppie italiane. «La Consulta deciderà se la legge 40 discrimina dal punto di vista costituzionale i pazienti affetti da sterilità, menopausa precoce, malattie genetiche e tutte quelle coppie che devono utilizzare semi o ovociti di un donatore esterno», spiega Borini. «Finalmente si toglierà anche quest’ultimo divieto».

Se le cose andassero come prevede Borini c’è da chiedersi allora che senso avrebbe mantenere una legge tagliata e modificata tanto da essere irriconoscibile. Per questo la Sifes ha fatto un appello e chiede al parlamento di riscrivere da capo una nuova legge. «Noi ci siamo proposti come interlocutori scientifici», precisa Borini, «perché è vero che le leggi le fanno i politici in parlamento ma quando la legge si occupa dei problematiche di salute c’è bisogno di un interlocutore che conosca meglio l’argomento, per aiutarli a fare una valutazione attenta della problematica scientifico-sanitaria. La società, la politica deve procedere in modo da tutelare gli esseri viventi, non danneggiarli».

L’8 aprile verrà anche deciso il destino di tutti gli embrioni conservati e schedati nei centri, dove risiedono inutilizzati. Non sarebbe forse più utile donarli alla ricerca scientifica o a coppie che non possono avere figli?

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