Ieri mi ha chiamata Giorgio, che non mi chiama mai, se non quando ha da ammorbarmi con qualche paturnia mistico-esistenziale, oppure quando io ho da ammorbarlo con qualche paturnia utero-vaginale.
Giorgio è uno dei miei pochissimi amici rimasti giù, a Taranto. Subito dopo il liceo è entrato in Marina, ogni tanto parte in missione segreta per qualche esotica destinazione, e poi torna, sempre lì, tra un mare e l’altro. Andavamo in classe insieme, ai tempi, e lui era famoso perché a casa sua si tenevano straordinarie sessioni di finto-studio/vero-petting prima dei compiti in classe. Era uno generoso, Giorgio: offriva il letto del fratello minore alle coppie di amici che dovevano adempiere ai tempestosi doveri ormonali tipici dell’età. Aveva anche il motorino, se è per questo, con il quale elargiva passaggi indiscriminati a tutte le pulzelle della scuola, me inclusa. A onor del vero, io mi cagavo sempre sotto quando andavo in motorino con lui, che in curva inclinava un sacco, e scappava, e io mi chiedevo sempre se sarei arrivata sana e salva a destinazione.
Ieri mi ha chiamata, che non lo sentivo da un sacco e ogni volta che mi chiama mi aggiorna su tutto quell’armamentario di individui tarantini che non frequento più da anni ma cui le eroiche gesta continuano ad appassionarmi. È una specie di approccio giornalistico, il mio, ma alla Alfonso Signorini: quello s’è sposato, quello ha mollato tutto e s’è trasferito in Australia, quello adesso vive a Shangai, quell’altro ha messo incinta una 18enne. E poi finiamo a parlare di lui, principalmente, e di me, marginalmente. Della tipa di cui è innamorato, delle persone che sta frequentando, dei progetti, dell’ansia di costruire e crescere. E di me, con “Ma stai davvero come leggo sul blog?”, “Uomini?”, “Quando vai via da Milano?”.
A sto giro, però, mentre parlavamo di minchiate, mi fa: “Te la ricordi Simona?”.
“Certo”, gli dico. Certo che me la ricordo, Simona, la sua ex. L’unica delle sue ex che non abbia mai indossato un paio di Hogan, conquistando così la mia incondizionata stima. Certo, Simona. Le Primavere Musicali in Piazza Garibaldi, le birre alla Baia del Pescatore, seduti sulla sabbia umida della notte che si attaccava alla pelle, le risate, era simpatica Simona, certo che me la ricordo. Piccoletta, sorridente e vitale come se si fosse pippata due grammi di cocaina ma no, non pippava Simona. Certo che me la ricordo.
“Le hanno trovato un tumore alla colonna vertebrale”, mi fredda.
“Devono operarla d’urgenza nei prossimi giorni. Adesso è bloccata a letto sotto sedativi. Poi dovrà fare la cazzo di chemio”, mi dice.
“Dimmi che non è vero”, rispondo.
“Purtroppo sì, questa cosa mi ha sconvolto, sono 3 notti che non dormo”, mi dice.
Ci credo che ti ha sconvolto, cazzo se ci credo.
A Taranto è così. Lo sappiamo che respiriamo veleni, che c’è diossina ovunque: nell’aria, nel mare, nei formaggi, nelle cozze, nel latte materno. Lo sappiamo che non possiamo vivere, lo sappiamo che i bambini nascono già con i tumori in corpo e che ci stiamo modificando geneticamente. L’Italia lo dimentica, ma noi lo sappiamo. Lo sappiamo perché abbiamo visto amici e parenti restarci secchi, ammazzati da questa vergogna. Lo sappiamo che da un giorno all’altro scopriremo di avere una merda in corpo, e che quella merda ci ucciderà, o ci cambierà la vita, o ci mutilerà. Ma quando lo scopriamo è sempre uno shock annunciato, un piccolo pezzo del tutto che crolla, una nuova dose di terrore per sé e per chi si ama. È come un macabro gioco della bottiglia: chi sarà il prossimo? Una specie di roulette russa, ma meno immediata, se ti tira male t’aspettano mesi e anni di agonia, mica un colpo secco che ti fa fuori. A chi toccherà?
Ogni volta è una nuova dose di terrore. Un terrore composto. Un terrore lucido. Si ripropone, costante, almeno una volta alla settimana. Ogni settimana vieni a sapere di qualcuno che sta male, un altro ancora, l’ennesimo. Il giorno prima mia madre mi aveva detto di essere stata al funerale del figlio di una sua amica, che era morto, a 43 anni, lasciando moglie e figlia. Per dire.
E anche per Giorgio, non è certo la prima volta. Sua madre, quando eravamo a scuola. Sua nonna, quando eravamo all’università. Il suo gatto, persino. Tutti via. Tutti di cancro ai polmoni.
Eppure questo è un dolore a cui non ci si abitua. Non ci si assuefa alla morte, non a questo tipo di morte, imposta dall’alto, imposta dal palazzo.
Ci credo che Giorgio è sconvolto. Forse perché Simona ha la nostra età. Forse perché con Simona ci è cresciuto. Forse perché con Simona ci ha fatto l’amore. Forse perché Simona ha una risata troppo contagiosa e allegra e non puoi immaginarla nel letto di un ospedale. Forse perché Simona due anni fa ha avuto un bambino e non è proprio accettabile un tumore alla colonna vertebrale, quando hai una vita da crescere. Una vita di cui occuparti, oltre alla tua.
Vorrei dirgli qualcosa. Vorrei dire qualcosa di intelligente o di rincuorante. Ma non ci riesco. Continuo a pensare “Fanculo”. Fanculo a Taranto, fanculo ai Riva, fanculo al decreto Salva-Ilva, fanculo a Vendola. Fanculo a chi è complice di questo massacro, di questo crimine contro l’umanità. Fanculo al lavoro, all’indotto, al Pil. Più di 1.500 morti all’anno. Quasi 4.000 ricoveri. Tutti per le stesse patologie, imputabili alla stessa causa.
A Taranto si muore, mentre il Parlamento continua ad approvare leggi che permettono all’Ilva di produrre senza rispettare le prescrizioni contenute nelle autorizzazioni integrate ambientali, che dovrebbero servire a ridurre l’inquinamento e a prevenirne, in parte, le conseguenze.
A Taranto si muore, con la connivenza della classe politica, degli alti prelati e del governo.
A Taranto si muore nel silenzio mediatico. A Taranto si muore mentre i capitali vanno all’estero. E a noi resta la solita retorica del ricatto occupazionale, della scelta tra salute e lavoro. Come se si potesse lavorare, da un loculo, al cimitero sui Tamburi. O dal letto di un ospedale in attesa di farci estirpare un pezzo di corpo che ha iniziato a divorarci da dentro.
A Taranto si muore. Come dappertutto, ma più che dappertutto.
A Taranto si muore facilmente. Rapidamente. Precocemente.
A Taranto si muore. “Ma Simona è forte”, gli dico.
Simona ha troppa voglia di vivere. Simona ha un figlio.
A Taranto si muore. Ma Simona ce la farà, gli dico, rincuorata del fatto che attraverso il telefono lui non possa vedere i miei occhi lucidi.