Harmont & Blaine è in buona compagnia. La casa di moda napoletana ha appena vinto una battaglia lunga dieci anni contro una società cinese che le aveva “usurpato” il marchio, fino a costringerla a chiudere tutti i 12 negozi già aperti in Cina. Un caso tutt’altro che isolato. Sono centinaia le aziende occidentali che quando arrivano nel Paese asiatico per commercializzare i prodotti scoprono che il proprio marchio è già stato registrato: logo e nome, sia in caratteri occidentali sia nella traslitterazione cinese. Si parla di moda – dove tra le vittime celebri si contano Valentino, Gucci, Prada, Zegna e Pierre Cardin – ma anche di settori insospettabili, come quello delle caldaie, dove a farne le spese fu ad esempio Ariston, o addirittura dei tubi.
«Personalmente ho assistito più di venti società che hanno avuto problemi di usurpazione del marchio in Cina – dice Federica Santonocito, avvocato dello studio Avvocati Associati Franzosi Dal Negro Setti specializzata nella materia -. È un fenomeno molto diffuso: le aziende italiane, quando si affacciano sul mercato cinese, spesso registrano il marchio in ritardo e si accorgono, a quel punto, che qualche cinese lo ha già depositato».
In Cina vale infatti il principio del “first to file”, in forza del quale il diritto sul marchio viene riconosciuto al soggetto che ne abbia fatto richiesta per primo. «Non sono infrequenti – avverte una guida di una società di consulenza specializzata sul tema – i casi in cui imprenditori cinesi hanno acquisito la titolarità in Cina di marchi registrati in Italia, sfruttandone la reputazione e/o cercando successivamente di cederli al titolare italiano dietro il pagamento di somme ingenti».
Le richieste, spiega l’avvocato Santonocito, «sono dai 100mila euro in su. A un mio cliente sono arrivati a chiedere anche 500mila dollari». Se poi ti chiami Apple, il conto può arrivare a 60 milioni di dollari. Tanti ne ha dovuto sborsare, nel luglio 2012, il colosso di Cupertino per poter utilizzare il marchio iPad in Cina, dove era già stato registrato dalla società Proview di Shenzhen.
A registrare i marchi sono spesso società produttrici, come nel caso della stessa Proview, che commercializzano i propri prodotti con altri brand e che tengono da parte quelli delle aziende “usurpate”, per farsi pagare dalle aziende occidentali. In altri casi sono delle piccole società che fanno solo questo tipo di attività. Un report dell’Ice di Hong Kong le definisce “shadow companies”. Sono localizzate soprattutto a Hong Kong, dove le pratiche burocratiche di costituzione e registrazione delle società sono particolarmente celeri e dove l’ufficio marchi locale non effettua ricerche di anteriorità o controlli sulle liste dei marchi notori. Le shadow companies sono “entità perlopiù commerciali”, con «capitale sociale minimo e un numero assai limitato di persone fisiche partecipanti o aderenti: di norma un solo socio o amministratore».
Le aziende italiane, aggiunge Santonocito, in genere non hanno alternative se non pagare. Lo stesso documento dell’Ice constata che è costante il pericolo che le cause civili si concludano con un buco nell’acqua, data la validità delle registrazioni da parte delle shadow companies.
Perché Harmont & Blaine ha scelto invece la strada del contenzioso, facendo ricorso al Dipartimento cinese di appello dell’Ufficio Brevetti, invece di quella più comune della transazione? «C’erano tutte le premesse per avere un accoglimento positivo della nostra richiesta e la nostra fiducia è stata ripagata – risponde Domenico Menniti, amministratore delegato di Harmont & Blaine -. Se la sentenza fosse stata negativa per H&B, nel bilancio 2013 avremmo appostato un’ingente cifra idonea a riacquistare il marchio, così come fatto per esempio recentemente da Apple».
Domenico Menniti, amministratore delegato di Harmont&Blaine
Le dispute possono finire davanti a una corte giudiziale, o al Dipartimento cinese di appello dell’ufficio brevetti. Va in genere meglio nel primo caso, dove, spiega l’avvocato Santonocito, le corti si sono dimostrate imparziali e hanno dato ragione anche a società europee. Harmont & Blaine ha invece vinto davanti all’ufficio brevetti, dove finora le cose erano state più ostiche per i marchi occidentali. Per questo la decisione potrebbe essere un precedente importante per la tutela dalle “usurpazioni” dei marchi.
La svolta sembra essere anche nel merito: in precedenza c’erano state sentenze che assegnavano la titolarità del marchio sia all’azienda occidentale che a quella cinese, sfruttando le lievissime differenze grafiche tra i due marchi. Così era stato, di recente, per il caso di Dsquared², casa di moda italiana fondata dai canadesi Dean e Dan Caten. L’amministratore di Harmont & Blaine Menniti spiega invece che «la sentenza accoglie in maniera totale il ricorso e assegna il diritto del marchio in esclusiva ad Harmont & Blaine. La decisione è ormai inappellabile». L’azienda non fornisce dettagli in più, né al momento è possibile vedere la sentenza, non ancora tradotta dal cinese all’inglese.
In genere, aggiunge l’avvocato Santonocito, le strade da seguire per ottenere una sentenza di nullità sono tre: appellarsi al non utilizzo del marchio da parte della shadow company, alla sua malafede al momento della registrazione o al fattore temporale, dimostrando che un marchio era già presente in Cina quando è stato usurpato. Nel caso di Harmont & Blaine la società ombra aveva però giocato d’anticipo. «L’usurpatore – spiega Menniti – ha registrato il marchio nel 2002: un bassotto con le ali nelle orecchie visto di prospetto e non di profilo come quello di H&B. Harmont & Blaine ha registrato il marchio nel 2003, quando è entrato nel mercato cinese attraverso distribuzione multimarca. H&B sbarcò poi in Cina con la prima boutique monomarca nel 2004», nel mall La Perle di Canton.
Il flagship store di Harmont & Blaine in corso Matteotti, a Milano
Per capire l’entità del contenzioso basti pensare che nel febbraio 2012, dopo otto anni di investimenti nel Paese, la decisione dell’Autorità Cinese impose ad Harmont & Blaine di ritirarsi dal mercato e la costrinse a rivedere i progetti di espansione nel Far East. Il gruppo dovette chiudere le proprie 12 boutique presenti in Cina, da Shanghai a Beijing, da Shenzhen a Guangzhou, da Hangzhou a Tianjin. Ora i progetti ripartiranno. «Abbiamo già ripreso i contatti con il nostro partner – conclude Menniti – ed entro la fine del 2015 contiamo di ritornare almeno al livello del 2012, con l’apertura di 12 nuove boutique. L’area della Grande Cina potrà arrivare a rappresentare il 12-15% del fatturato del gruppo».