Pietrangelo Buttafuoco, dal giornalismo in avanti

L'autore de Il dolore pazzo dell'amore

Pietrangelo Buttafuoco ha 50 anni, ha esordito con un romanzo diventato bestseller, Le uova del drago, ne ha scritto altri tre (l’ultimo è Il dolore pazzo dell’amore), ha pubblicato due saggi (Fimmini; Cabaret Voltaire), e firmato migliaia di articoli: non c’è pagina che non abbia fatto incazzare qualcuno. Oriana Fallaci telefonava a Ferrara per chiedere conto di alcuni pezzi senza firma sul Foglio che le piacevano e quando scopriva che erano di Buttafuoco gli dava dello “stronzo maiale” (lui la punzecchiava e la additava a simbolo di una destra “che altro non è che una malattia senile della sinistra”); sul Secolo d’Italia si firmava Dragonera e faceva litigare tutto il Movimento Sociale per ritratti ironici e punture satiriche; rompe con Panorama perché scrive su Repubblica un pezzo critico su Berlusconi.

Lo vado a trovare al Foglio, alla sua scrivania c’è Shaik Omar Camilletti, coadiuvatore del Centro culturale islamico di Roma (Buttafuoco è di fede islamica). Insieme andiamo a bere una cosa in uno dei bar che s’affacciano su Santa Maria in Trastevere. Tè al latte per Buttafuoco, col limone per Omar e me. Iniziamo a chiacchierare, di tanto in tanto Omar dice la sua, poi a un certo punto se ne va e ci salutiamo con il “sa’ benedica” siciliano che è il “salam aleikum” arabo.

C’è un momento in cui ti ricordi che la letteratura è entrata nella tua vita?
No, io credo che non sia stata la letteratura a entrare nella mia vita. Forse il ragionamento, la parlata, il racconto sono entrati per primi. La necessità di mettere in fila le cose. E poi le immagini. E forse più di tutti la messa in scena. Il fatto che da bambino passavo le giornate ad ascoltare i racconti nel salone del barbiere, o nell’officina del meccanico, o dal sarto, sempre per quella pratica tutta nostra [dei siciliani, NdR] di stare insieme ai vecchi e starli ad ascoltare.

I “cunti” di cui è pieno Il dolore pazzo dell’amore vengono da lì?
Esattamente. Barbieri, officine, piazze e poi la famiglia, gli zii. Molti dei “cunti” che ho messo dentro il libro me li porto dentro dagli anni della mia infanzia e adolescenza. Il racconto orale, “lu cuntu”, per me è stato il battesimo del fuoco.

Lo erano anche le prime cose che hai scritto?
Erano messe in scena, appunto. Nascevano dalla necessità di rivivere le cose.

Eri contento di scrivere? Che giudizio davi di quelle prime cose?
Mi arricriavo. C’era proprio d’arricriarsi. Un termine che dovremmo tradurre, e che potremmo tradurre con una sensazione tra il desiderio appagato e la gioia. Poi naturalmente venne il giornalismo.

Dove hai iniziato? 
In una rivista rivista che si chiamava Tabula rasa, che era la rivista di Beppe Niccolai. Una filiazione dell’Eco della Versilia. Lì cominciai a scrivere.

E da dove scrivevi? Da Leonforte, stavo ancora in Sicilia. Potevo avere 21-22 anni. Nel frattempo mi ero laureato, poi ho fatto il militare e finito il militare ho aperto una libreria. A Leonforte, l’ho aperta. Era l’unica libreria della provincia di Enna: ed era come vendere frigoriferi agli eschimesi.

Immagino giornate e serate epiche…
Non veniva nessuno. Che poi era una libreria vera, no un edicola coi libri: una libreria punto e basta. Uno dei fallimenti più fantastici che abbia mai attraversato. Però bello, bellissimo. Si chiamava “Libreria del mastro”. Quando scrissi il primo libro, Le uova del drago, che fu un bestseller, pensai: vedi, tutti i libri che non avevo venduto in libreria sono stati vendicati da questo.

Che hai studiato?
Ho fatto Filosofia Teoretica. Le mie passioni di studio sono state: la filosofia greca, Nietzsche e Heidegger, e poi l’Islam. Questi sono i tre capitoli a cui sono più legato.

Mi pare che abbiano scandito anche la tua vita, mi sbaglio?
No, decisamente hanno segnato e scandito la mia vita.

Omar posa il suo thè: sta parlando della Sicilia, dice. E Buttafuoco conferma: Esatto. Il pensiero Normanno e l’Islam, dice Omar.

Credi che questi tre sistemi di pensiero abbiano anche scandito e modellato la tua scrittura?
Sicuramente. Quand’ero ragazzino ero ubriaco di Nietzsche. Poi ho cominciato a lavorare, studiando con lentezza e fatica, il linguaggio di Heidgger, e da lui sono ritornato alla Grecia. E quindi il pensiero tragico dei greci. E andando avanti ho incrociato l’Islam.

Posso fare un inserto?, chiede Omar. Hai parlato dei cunti, che è l’arte del racconto, ma anche del recitare una storia. Ma perché non hai fatto teatro, alla fine. Perché non sei diventato un attore, o non hai scritto per il teatro?

Allora, intanto per il teatro sto scrivendo. In quanto alle mie prove di attore ricordo una memorabilissima petrolinata fatta all’Università di Friburgo, alla casa degli studenti. Si organizzò una festa e io mi misi a spiegare Petrolini ai tedeschi. E feci pure “Wo ist Zazà, meine freude, Wu ist Zazà, mein Leben, la traduzione in tedesco di “Dove sta Zazà”. E la cantavo insieme alla buonanima di Paolo Signorelli. Recentemente, invece, all’anfiteatro romano di Ascoli Piceno, con mio compare Baldo Licata ci siamo esibiti in una sorta di for da fiore della poesia scenica siciliana, col combattimento di Orlando e Rinaldo di Nino Martoglio. In traduzione simultanea dal siciliano all’italiano. Per arrivare a Ibn Hamdis. E mi ricordo che non abbiamo fatto forno, ci fu folla.

Mi sono fatto l’idea che vedi teatro e sceneggiate dappertutto…
Sì, è vero. Anche nelle cronache che faccio per Il Foglio è così.

È una visione del mondo molto pirandelliana…
Pirandello è molto importante, per me. Solo che è tanta la soggezione che sto un passo indietro. Ho una forma di attenzione, di cura e di cautela nei confronti di Pirandello. Ricordo ancora perfettamente la sensazione di quando toccai il pino in contrada Kaos, dove sono raccolte le sue ceneri. E poi mi ha fatto impressione perché solo due grandi siciliani si sono fatti seppellire al modo islamico, avvolti nei lini. Uno è Federico II di Svevia, il cui capo è orientato verso Mecca; e l’altro è Pirandello, che preferì la nudità alla bara, ma dato che ormai è cenere, non sappiamo dove è orientato il suo capo. Però chi conosce bene l’opera di Pirandello non può ignorare che quella vena tutta saracena è molto presente.

Oltre Pirandello, quali altre letture ti hanno formato?
C’è un libro che mi causò qualcosa proprio di fisico, e quel libro fu Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov, tanto è vero che poi partii per la Russia.

Cioè, stiamo parlando di un ragazzo di destra che piglia e parte per l’Urss?
Io sono nato nel Movimento Sociale Italiano, ma in Russia ci sono andato con la federazione del Partito Comunista di Catania assieme a Fabio Fatuzzo, che era consigliere comunale in città. E devo dire che i compagni della federazione si portarono ben volentieri noi due.

Omar: «un po’ come i viaggi di Don Camillo e Peppone». E Buttafuoco: «ma però quelli lo sapevano che noi eravamo di destra».

Che anni erano?
Mi ricordo che era il periodo di Andropov, fine Settanta inizio Ottanta. E fu un viaggio bellissimo. Poi un secondo lo abbiamo fatto con una comitiva di militanti del Movimento Sociale, poi diventati famosi tipo Fabio Granata, e molti altri tipo Santo Castiglione, Angelo Sicali.

Cosa ti portava lì?
Io ho sempre fatto viaggi verso l’Oriente. E la mia formazione di ragazzo è orientata a quell’orizzonte. Ti confesso una cosa: sono sempre stato ipnotizzato dalla Russia. Quando c’è una cosa che viene dalla Russia resto lì a studiarmela e ad assaporarmela. Qualche mese fa sono stato invitato alla residenza russa e mi sentivo come se fossi tornato a casa. Conosco la loro letteratura, la loro musica, i loro film. E poi mi affascina moltissimo la questa loro compostezza tragica. Tengono dentro la loro memoria tutto, senza mai fare i buoni e i cattivi. Anche qui a Roma, nella loro cattedrale, sull’altare maggiore ci sono le icone dei Romano, ed è una chiesa che è stata costruita quattro anni fa.

Di occidentale cosa entra nella tua formazione?
Il medioevo mi affascina molto…

Sembra che tu in fondo ci stia scomodo in questo tempo, e in questo Occidente.
Ma sai, mi sono fatto un’idea. L’attuale presente e l’attuale Occidente è periferia. Dove non succede niente, e tutto è tramontato. Ma là dove c’è un vuoto c’è sempre un pieno pronto a riempirlo. E questa può essere anche una cosa positiva. Solo per celia pensiamo che il presente sia peggiore di quello che abbiamo dietro le spalle, in realtà non ce la siamo passata mai meglio, e questo provo a raccontarlo anche al Foglio.

Ai giornali nazionali come ci sei arrivato?
Prima di tutto vado a fare “l’abusivo” al Roma di Napoli. Mi divertii un sacco, è stata una bellissima esperienza. Dopo vengo su a Roma, a fare un’esperienza futurista. Vengo a dirigere una rivista che aveva pochissimi soldi. Italia, si chiamava. Faccio dodici numeri, poi chiudiamo. Poi Belpietro mi chiama per collaborare all’Indipendente. Quando Belpietro passa al Giornale mi fanno scrivere lì. Il praticantato giornalistico lo faccio al Secolo d’Italia, ci sto più o meno un anno e mezzo.

Ho letto che al Secolo hai fatto litigare tutti…
Sì, sì, certo.

Come, certo?
Ma in realtà le mie, come dire, sono sempre state “allegrie”. Quello era un mondo, a dispetto di quello che se ne pensa, un mondo di assoluta libertà e allegria. Il Movimento Sociale era un partito dove ogni testa era regno. Per cui i congressi si svolgevano sempre con delle animate discussioni, che poi culminavano in risse meravigliose, un po’ alla Asterix e Obelix. C’è una scena meravigliosa che aiuta a capire dove mi inserivo io con le mie “allegrie”. Filippo Anfuso, uomo di eleganza superba, catanese, ambasciatore a Berlino, spirito serafico, vede una rissa in platea durante uno di questi congressi. Chiama mio zio e gli fa: «ninù, guarda che bellezza, non hanno niente da spartirsi e si spartiscono legnate». Di questo mondo scrivevo al Secolo d’Italia.

Poi sono arrivati Panorama e Il Foglio, no?
Pietro Calabresi, direttore di Panorama, è stato il primo a farmi un contratto vero. E lo ebbi alla veneranda età di quaranta due anni. Poi arriva Belpietro, che mi lascia assoluta libertà. Però è in quel momento che comincia il berlusconismo hard. Belpietro non mi costringe a esibizioni di berlusconismo. È con la nuova direzione, quella successiva a lui, che me ne sono dovuto andare. E per fortuna c’è Il Foglio, che è la mia casa.

In tutti questi anni di giornalismo pensavi mai di voler scrivere narrativa?
Allora, tutto nasce qui a Trastevere. Sono al Foglio e mi telefona Antonio Franchini di Mondadori. Ci vediamo proprio in questo bar e lui mi chiede se ho in mente di scrivere qualcosa di narrativa. E io, scavando nei ricordi, gli racconto una storia legata tra l’altro alla libreria che avevo aperto tanti anni prima. Lì me l’aveva raccontata Sandro Attanasio. Era la storia di una spia tedesca la cui figura diventerà poi centrale nel mio esordio, Le uova del drago. Nel racconto di Sandro io avevo riconosciuto molti nomi che facevano da contorno alle gesta di questa spia, e già allora mi ero appassionato. Ne parlo a Franchini e la storia gli piace. Un mese dopo, a pranzo, gli diedi le prime cose. Poche ore dopo, mi telefona dal treno e mi dice: voglio il resto, questo è il nostro libro. Allora io d’estate me ne andai in Sicilia, a Donnalucata, e lo scrissi. All’inizio facevo così: me ne andavo lì e scrivevo.

Narrativa e giornalismo hanno poi avuto tempi e spazi diversi?
No, dopo Le uova del drago non più.

E come lavori alla narrativa?
Ho i miei quadernetti e prendo appunti. Alla fine mescolo tutto. Giornalismo e narrativa, dentro quei quaderni c’è tutto. C’era un periodo che viaggiavo molto, era quando ero allo Stabile di Catania, allora prendevo molti appunti, e poi li trascrivevo.

Ma quindi tu scrivi a penna?
Sì.

Anche i romanzi?
Sì, sì, la prima stesura è a penna, non potrei altrimenti perché a me capitano cose assurde, belle. Non so perché ma mi ispira tantissimo la strada tra Donnalucata a Rosolini. La faccio in auto, mi piace. Poi ogni tanto vengono delle cose e allora mi fermo e inizio a scrivere.

Hai orari?
No, no, io scrivo sempre. Non ho orari né rituali particolari.

Dopo la trascrizione ti rileggi?
No, e infatti vengo sempre rimproverato dal mio amico Sergio Perrone. Mi fa sempre questo esempio: è come quando tu esci la mattina, che fa non ti guardi allo specchio? Io sinceramente manco allo specchio mi guardo, la mattina, perciò.

Lavori con gli editor o vuoi che quello che hai scritto resti così per com’è?
No, figurati. Io essendo giornalista so che il caporedattore ha sempre ragione. E lo stesso vale con la narrativa. Gli occhi degli altri sono migliori dei miei, sicuramente. Poi io ho Sergio, appunto, che mi legge, e mi fido molto.

Fa l’agente, lui, no? Ti segue lui?
Sì, è un agente, ma non il mio. Io gli do da leggere le mie cose perché è un amico.

Quando hai iniziato, ci pensavi a come volevi che uscissero le frasi, il suono? E cos’è cambiato nel tempo?
Ho lavorato a togliere. Prima ero molto più fumoso, arraffazzonato. Ora di sicuro sono più secco: oserei dire più vecchio.

Pensi mai ai tuoi lettori? Hai un lettore tipo?
Sì ci penso. Ma più che a lettori penso ad ascoltatori. Io mi vedo molto a raccontare ad alta voce, e di là immagino degli ascoltatori che partecipano delle emozioni che sto provando a suscitare.

Usi molto, più che l’ironia, l’umorismo, da dove arriva questa vena?
Da mio padre, è stato lui a insegnarmi l’umorismo. Poi io ho sempre amato lo spettacolo, e sopra tutto l’avanspettacolo. Anche nel giornalismo io cerco di mettere degli elementi di avanspettacolo.

Hai dei pudori, cose che sai che non scriverai mai?
Sì, e sono quelli che mi ha insegnato Valentino Picone. Da lui ho imparato che devo evitare la commozione, quella facile specialmente. Appena ci sono scene che ti commuovono, levale. È questo che mi ripeto quando scrivo.

Riesci a immaginare un futuro per la letteratura?
Di una cosa sono convinto. Tra tablet, telefonini, computer: c’è più tempo per leggere, ma non c’è più la capacità di leggere. Siamo in un’epoca in cui la riflessione, l’analisi e lo spirito critico stanno per essere cancellati. Ovviamente è una condizione tutta occidentale, perché altrove ancora lo fanno. Se ti metti a parlare con un cinese ti rendi immediatamente conto che quello è capace di ingurgitare non uno ma cinque Il mondo come volontà e rappresentazione.

E qual è la conseguenza di tutto questo?
La conseguenza è che noi saremo (e già siamo) degli sconfitti della Storia. Destinati a essere gli ultimi. Non avremo neanche più bisogno di affinare lo spirito critico, a un certo punto. Senza questo spirito non avremo visioni, né prospettive. La futura classe dirigente sarà la prima a non aver mai letto Dostoevskij. Mentre invece, chi si prenderà il mondo se lo prenderà in virtù di una sapienza antica e di occhi critici sempre più affinati. In Oriente vanno avanti a colpi di Confucio e Kant. I nostri nipoti citeranno Fabio Volo, come ho letto su Twitter.

Gli intellettuali riusciranno a farsi sentire?
Ma io, ti dico la verità, più che un intellettuale, aspiro a essere un artista. Io credo profondamente nella figura dell’artista. Io non mi sento intellettuale, io mi sento artista, perché traffico con il sangue e con le emozioni. A me non importano i proponimenti, io aspiro a un linguaggio che sia universale, religioso. Sono un artista e dunque antidemocratico, la democrazia è una prigione dell’individuo, anche se travestita bene, io sono per la massima libertà dell’individuo, degli intellettuali non so che farmene.

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