Renzi e la maledizione del Tesoro

Non son degno di Mef

Matteo Renzi non ha bisogno di consigli, veloce com’è di pensiero e d’azione. Ma forse gli converrebbe accettarne almeno uno: si difenda dalla maledizione del Tesoro. Perché la scelta più delicata che ha davanti riguarda proprio il nuovo candidato alla gogna, anzi il nuovo san Sebastiano. Sarà lo spettro di Quintino Sella, sarà il labirinto dei mille poteri che fa perdere l’orientamento anche alle menti migliori, ma in quel palazzone di via XX Settembre che sembra una fortezza, alberga qualche forza oscura. Hanno provato in molti ad esorcizzarla, per lo più senza esito. 

Dopo la lunga stagione degli economisti e dei tecnocrati, riprende quota una scelta politica, anche se non sarà facile, perché non sono molti i candidati dal giusto profilo e tutti si rendono conto del pericolo: l’ombra del Tesoro ha oscurato laici come Ugo La Malfa o Giuliano Amato, cattolici come Paolo Emilio Taviani o Filippo Maria Pandolfi, giovani come Giovanni Goria e stagionati come Mario Ferrari Aggradi. Un tecnico-politico del livello di Ezio Vanoni è da ricordare per la riforma tributaria del 1951 con l’obbligo di dichiarare i redditi, non tanto per la sua gestione della spesa pubblica. Quanto a Guido Carli, ha offuscato nel triennio 1989-1992 parte della credibilità costruita in mezzo secolo. 

Sì, proprio lui, il potente governatore che dalla Banca d’Italia ha guidato le scelte economiche italiane, manovrando Emilio Colombo al ministero del Tesoro e  denunciando “le arciconfraternite del potere”; poi, una volta arrivato alla piena responsabilità politica, ha assistito impotente al raddoppio del debito pubblico italiano. Quando diventa banchiere centrale ed entra a palazzo Koch, il debito rispetto al prodotto lordo è pari al 60% del pil, quando lascia via XX Settembre, dopo aver firmato insieme a Giulio Andreotti il Trattato di Maastricht, corre verso quota 120. Roba da convincere i più scettici materialisti che un soffio diabolico percorre i lunghi corridoi che s’affacciano sul cortile quadrato simile a una piazza d’armi. 

Oggi le cose, anche per colpa di Maastricht, sono più difficili di un tempo. Il ministro del Tesoro (lo chiamano dell’Economia, definizione troppo generica tanto più che c’è anche un ministro detto dello Sviluppo) si trova infatti a dover gestire il bilancio della nazione senza avere al suo fianco chi stampa e controlla la moneta. Da quando nel 2001 la valuta in circolazione viene battuta e regolata fuori dai confini (sia per con il contributo pro quota dell’Italia) il suo compito è diventato arduo, chiuso com’è nella gabbia del patto di stabilità. La sovranità monetaria è stata ceduta con la nascita dell’euro, ma anche la sovranità fiscale non ha molti margini di manovra, soffocata dal macigno del debito e da una logica di potenza che mette alcuni paesi, in particolare la Germania, nella plancia di comando. 

Per un secolo il Tesoro e la Banca d’Italia hanno dovuto marciare allo stesso passo, pena guai serissimi, come è accaduto ogni volta che sono entrati in conflitto. A cominciare dal 1960, con l’arrivo di Carli, la banca centrale ha preso via via il sopravvento, nonostante i tentativi di controbilanciarla compiuti da figure diverse, ma entrambe forti come Beniamino Andreatta o Giulio Tremonti. Finché l’intera gestione della politica fiscale non è stata lasciata agli uomini di via Nazionale con Lamberto Dini, Carlo Azeglio Ciampi, Tommaso Padoa Schioppa o Fabrizio Saccomanni. 

Un tempo la banca centrale pagava il Tesoro a pie’ di lista con un conto corrente apposito che copriva fino al 14% delle spese iscritte in bilancio. Poi nel 1981 c’è stato il divorzio, fortemente voluto da Andreatta e da Ciampi, ma la situazione è persino peggiorata. Oggi un fertile pensiero revisionista sostiene che fu proprio quello l’errore originario aggravato dall’aumento dei tassi di interesse che ha fatto salire ulteriormente il debito. Le cose sono più complicate perché il boom del debito negli anni ’80 deriva dal fatto che riforme come le pensioni, la sanità, gli ammortizzatori sociali, sono state finanziate in deficit: nonostante la continua rincorsa, infatti, le entrate restano sempre inferiori alle uscite. Inoltre, venendo a cadere anche l’obbligo per la banca centrale di acquistare i titoli di stato invenduti, il re è rimasto nudo come anche il suo tesoriere, entrambi in preda ai “lupi” di Wall Street o della City. 

Se la moneta rappresenta un coagulo di fenomeni sociali, come diceva lo storico francese Marc Bloch, il bilancio dello stato è la cassetta degli attrezzi della macchina politica. Attraverso il conto delle entrate e delle uscite passa il “calcolo del consenso” come lo hanno chiamato James Buchanan e Gordon Tullock ispirandosi agli studiosi italiani di scienza delle finanze di fine Ottocento. Vantiamo un primato teorico, al quale fa seguito un ben più triste primato pratico. Le scelte pubbliche sono dettate dalla matassa di corporazioni e interessi privati, dalla distribuzione delle spoglie come chiave del successo elettorale e dai burosauri che tendono sempre a “massimizzare le risorse” e mantenere il controllo sui processi decisionali. Chi ha in mano le chiavi della cassa, il ministro o il ragioniere generale? Se ancor oggi è l’assistenzialismo non la crescita economica a fare e disfare la carriera di un politico, il monopolio sulla conoscenza delle cifre reali rende immenso il potere degli alti dirigenti. 

Uno dei primi compiti del ministro, dunque, sarà esercitare una guida saggia, ma ferma. Che non significa naturalmente manipolare i dati in funzione delle esigenze momentanee, ma nemmeno chiudere nei cassetti l’80% dei provvedimenti già decisi, in attesa di provvedimenti attuativi che mai verranno, come è accaduto al governo Monti. Altro che endemica inefficienza, in molti casi siamo proprio a un efficientissimo sabotaggio. La scelta di innestare dall’esterno figure nuove, come il ragioniere generale, Daniele Franco (dalla Banca d’Italia), il direttore generale Vincenzo La Via (dalla Banca Mondiale) o il commissario per la spending review Carlo Cottarelli (dal Fondo monetario internazionale), anche se non ha provocato una reazione di rigetto, non ha dato i frutti sperati. 

Nel frattempo, il prossimo ministro dovrà definire in modo più aggressivo la sua priorità: ridurre la spesa pubblica al netto degli interessi di cinque punti rispetto al prodotto lordo e abbassare contemporaneamente la pressione fiscale. I tagli alle uscite non possono essere lineari, dice la vulgata alla moda e si prendono per buone le critiche a Tremonti che invece ha ridotto la spesa dal 46,4 al 45,4 del pil tra il 2010 e il 2011 mantenendo le entrate al 46,6 per cento. Poteva essere l’inizio di un percorso, ma poi è scoppiata la bufera del 2011. 

La revisione della spesa è uno strumento fondamentale, come mostrano gli esempi del Canada, della Gran Bretagna e di altri paesi anglo-sassoni, ma essa garantisce una corretta manutenzione. La scelta di fondo, cioè ridimensionare l’intervento pubblico nell’economia, è di natura politica e non è stata ancora compiuta. Renzi è chiamato a farlo e dovrà trovare la persona giusta per condurla in porto.

Il ciclo della delega a via Nazionale dovrebbe concludersi con l’esperienza Saccomanni. Sarebbe meglio chiudere anche quello della soluzione tecnica. Renzi ne sembra consapevole e dopo il solito girotondo di economisti eccellenti, sta cercando un nome che sia nello stesso competente e politicamente forte. Il titolare del Tesoro oggi è il ministro più importante, dunque deve avere le competenze giuste, ma anche lo spessore politico, il carisma e il sostegno per trattare con i sindacati e con gli industriali (trattare vuol dire anche subordinare all’interesse generale il diritto di sciopero del lavoro e del capitale). E l’autorevolezza di discutere da pari a pari con chi batte moneta.

Questa è obiettivamente una difficoltà aggiuntiva, non solo per il potere sovranazionale che il banchiere centrale detiene, ma anche perché chi lo esercita è Mario Draghi, uomo di grande preparazione economica, abilità gestionale e astuzia politica, lo stesso che ha determinato le scelte compiute dall’Italia a partire quanto meno dal 1992, prima come direttore generale del Tesoro, poi come governatore. Dall’assetto delle banche alla regolamentazione del mercato finanziario (si pensi alla legge sull’offerta pubblica di azioni), Draghi ha lasciato la sua chiara impronta. 

L’Italia ha bisogno di aiuto da parte della Bce e dell’Unione europea, a fronte naturalmente di una politica di bilancio rigorosa e di riforme che facciano aumentare la produttività, a cominciare da quella del lavoro. In realtà, ci vuole una vera svolta nella politica economica europea, ma Renzi non ha ancora né la forza né l’autorevolezza per proporla. Lo si è visto dalla reazione ad un tempo sorpresa e piccata della Cancelleria tedesca. La Merkel lo ha incontrato, ma non sa davvero chi è né che cosa farà. L’International New York Times sabato nella colonna d’apertura lo definiva un “maverick”, insomma un cane sciolto, uno che non rispetta le regole del gioco. 

Qualche grana con la Ue, del resto, l’ha lasciata lo stesso Saccomanni il quale pure ha sacrificato se stesso al tabù del tre per cento: Bruxelles aspetta ancora i dati della spending review per concedere la detrazione degli investimenti pubblici dal calcolo del disavanzo. In più incombe il cambio dell’umore collettivo: secondo gli ultimi sondaggi, gli euroscettici sono diventati maggioranza. Un ministro del Tesoro che abbia come suo unico mantra il rispetto delle regole di Maastricht, non andrà molto lontano. La lealtà agli impegni europei non esclude immaginazione, capacità di interpretare le norme e coraggio nel manovrare, come dimostra lo stesso Draghi alla Bce. 

L’appuntamento chiave è il fiscal compact: a partire dal 2015, quindi tra pochi mesi, bisogna trovare 50 miliardi di euro l’anno per ridurre il debito al 60% del pil in vent’anni. E’ possibile con un rigore di bilancio prolungato e una crescita monetaria superiore al tre per cento (per esempio due punti di aumento del prodotto reale e uno d’inflazione). Ma la stretta finora ha represso lo sviluppo, quindi il paradosso è che per rispettare il fiscal compact dobbiamo spezzare il circolo vizioso che il fiscal compact alimenta. O il ministro del Tesoro sostenuto dal governo riesce a cambiare i termini del trattato, applicando quanto meno i correttivi dei quali si è più volte discusso (ricchezza patrimoniale, risparmio, economia sommersa), oppure deve ottenere un rinvio. Allo stato attuale non si vedono vie di mezzo.

Per la poltrona di Quintino Sella occorre qualcuno che conosca i tortuosi percorsi dell’eurocrazia, che sia noto e rispettato dalle cancellerie, gradito o quanto meno non sgradito a Draghi, sappia guidare la coriacea intendenza amministrativa e, ultimo ma non certo per importanza, metta in riga anche le banche che, con il fiscal compact, sono il più grosso grattacapo. Basti pensare al Monte dei Paschi: o restituisce i Monti bond l’anno prossimo o finirà per essere nazionalizzato. E’ tanto, forse troppo e, naturalmente, non esiste la perfetta sintesi cercata invano da Platone nella Repubblica, tanto meno quando comincia il carosello delle nomine pubbliche. Ma, come indica nelle Leggi il filosofo, ormai più anziano e rassegnato, un ragionevole mix è sempre possibile.

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