Tra i tanti problemi che Renzi si trova a ereditare e che dovrà affrontare immediatamente, uno dei più rilevanti riguarda i rapporti tra l’Italia e l’Unione europea. È un problema serio, articolato in almeno tre livelli concentrici.
C’è una prima questione che riguarda le pendenze irrisolte con la Commissione europea sul bilancio italiano del 2014. C’è una seconda questione, sul rispetto dei tetti europei. E c’è, ancora più ampia, una questione più generale: la richiesta che viene da ampi settori della destra come della sinistra, di operare una rottura di continuità rispetto alla posizione tenuta da Roma verso l’Unione europea in questi anni di crisi, da Berlusconi-Tremonti prima, Monti poi, e Letta infine. La questione politica vera è quest’ultima, ed è assai sdrucciolevole. Le elezioni europee sono tra poche settimane, e Renzi dovrà misurarsi con un dibattito politico che sarà incandescente, sul doppio nodo dell’euro e del rigore. Avendo, sulla carta, assai pochi margini per assecondare colpi di testa. Ma è anche vero che Renzi ha già detto nel recente passato alcune cose, su queste materie, che potrebbero tradursi in novità comunque profonde.
Cominciamo però dalla prima questione. Essa nasce con l’uscita dell’Italia dalla procedura d’infrazione europea, nella scorsa primavera, grazie alle misure di bilancio – tasse, soprattutto tasse – assunte sommando l’ultimo Tremonti e Monti. A quel punto, l’Italia chiese di potersi avvantaggiare nel 2014 di un bonus per spese d’investimento pubblico aggiuntive, rispetto al limite rigoroso comunque da rispettare, di abbassare ancor più nel 2014 il deficit pubblico sotto quota 3% del Pil. Tutti parlarono a vanvera di chissà quale premio, per l’Italia virtuosa. Sciocchezze, stiamo parlando in in realtà di robetta: 2,7 miliardi in tutto. Ma è pur vero che è quasi un 10% in più, rispetto alla bassissima cifra della spesa per investimenti pubblici – in questi anni la spesa corrente è cresciuta perché i voti si fanno con quella, gli investimenti dello Stato si sono abbassati.
Il governo Letta quei 3 miliardi scarsi di investimenti in più li ha già messi nel bilancio 2014, dando per scontato che l’Ue fosse d’accordo. La sorpresa è venuta quando la Commissione ha esaminato la legge di stabilità, e ha avuto da obiettare. La crescita attesa nel 2014 dal governo Letta era troppo alta, l’1,1% del Pil, mentre il più degli osservatori internazionali e Bankitalia non si spingono oltre lo 0,6-0,7 per cento. Decimali di punto, ma tali da indurre la Commissione a chiedere a Letta un mezzo punto di Pil di tagli aggiuntivi al deficit pubblico. Saccomanni a Bruxelles disse che ci avrebbe pensato Cottarelli. E resta il fatto, dunque, che Renzi dovrà come prima cosa mettere per iscritto le misure aggiuntive che Letta e Cottarelli avevano solo promesso. In teoria e in pratica, la scadenza per comunicare alla Commissione le nuove misure era il 17 febbraio 2014…
Ciò vale a patto, naturalmente, di voler rispettare alla lettera e al decimale di punto i tetti europei. E qui veniamo alla seconda questione. In realtà, non solo tutte le opposizioni, da Grillo alla Lega e Fratelli d’Italia, ma un bel pezzo dello stesso Pd, nonché uno svariato crescente numero di intellettuali, economisti e via proseguendo nei talk show serali, dicono e teorizzano che il tetto del 3% al deficit pubblico bisognerebbe avere il coraggio di violarlo, e bellamente fregarsene, se l’autorizzazione non viene. Stefano Fassina, l’ex viceministro all’Economia, si dimise non solo per la sferzante battuta di Renzi, “Fassina chi?”. Ma perché da tempo sostiene che i limiti al deficit sarebbero il diktat di una “visione neoliberista” da cui il Pd deve liberarsi. Fassina non è affatto solo, a pensarla così.
Renzi pure, qualche tempo fa, disse che a suo parere in questo 2014 il 3% di limite al deficit pubblico non deve rappresentare un tabù. Se l’Italia porta in Europa due-tre misure in grado di scuotere davvero dalle fondamenta il suo ritardo di bassa crescita e forte disoccupazione, bassa produttività e gap di competitività, allora Bruxelles non potrà che apprezzare e capire.
Attenzione: Renzi – finora, almeno – non ha mai sposato la visione ormai anti-euro di Grillo, Salvini, Alemanno e tanti altri. Né ha teorizzato la “svolta a sinistra”, che porta diversi esponenti del Pd ad accarezzare l’ipotesi di una nuova formazione insieme a Sel. Ha proposto invece di sfondare il tetto al deficit per finanziare riforme che possano avere effetti certi di crescita nel breve-medio periodo,e in quanto tali certificati anche da Bruxelles. Ma tutto questo l’ha detto dalla comoda posizione di leader politico senza responsabilità di governo. Ora che diventa premier, si tratta di capire se davvero seguirà questa linea. E come la differenzierà, eventualmente, dall’assordante coro antieuro con il quale ormai tutti – da Berlusconi a Ferrero, passando per i 5 Stelle – pensano di mietere voti alle europee, pescando a mani basse nelle giusta rabbia di milioni di italiani regrediti nella crisi a redditi reali di 15-20 anni fa, e sapendo che analoga politica seguiranno il Front National in Francia, l’Ukip nel Regno Unito, il Pvv in Olanda.
Venendo al terzo problema, Renzi sa di avere un doppio handicap. A differenza di chi lo ha preceduto, Letta e Monti, il sindaco di Firenze non è personalmente conosciuto e stimato dai leader europei e da Obama, dal Fondo Monetario e dai mercati. Meglio, direbbero gi anti-euro. Ma è un bel rischio per lui, presentarsi alla Merkel e a Draghi come un premier che pone l’Italia sulla linea del non rispetto degli accordi pregressi. È vero che i mercati mondiali spingono verso il basso lo spread dei Paesi eurolatini, grazie alla fuga di flussi finanziari in atto dai Paesi emergenti. Ma ci si mette poco, a farsi la fama dello spendi-facile italiano.
Il secondo handicap è che il premier Renzi non potrà far finta di niente, come hanno fatto i suoi predecessori, di fronte al fatto che nel 2015 entra in pieno vigore il fiscal compact, con l’impegno ogni anno a ridurre di almeno un ventesimo l’eccesso di debito pubblico oltre quota del 60% del Pil. E noi siamo al 133 per cento! Nella legge di stabilità di Letta, che pure abbraccia l’orizzonte triennale in cui il fiscal compact entra in vigore, non si dice nulla di come rispettarlo. Ed è contro il fiscal compact che, nella campagna per il voto europeo, tanti picchieranno col martello, accusandolo di essere uno strumento di asservimento dell’Italia alla perfida signora Merkel…
Nessuno può oggi sapere come Renzi si regolerà. Né sappiamo come la pensi dei numerosi “programmi straordinari” per abbattere e consolidare il debito, mutuando patrimonio pubblico e risparmio di mercato, che sono stati avanzati in questi anni, e che talora mascherano ipotesi di temibili patrimoniali. Un conto è se Renzi davvero presenterà riforme energiche, tagli profondi all’Irap e alle tasse sul lavoro, tagli di spesa veri e sin qui mai visti, privatizzazioni serie e non finte come quelle che si stanno varando, ad esempio Poste. In quel caso, l’Italia potrebbe pensare secondo Renzi di tornare a crescere entro un paio d’anni verso un tasso del 2% del Pil, ed è ciò che serve per recuperare in 6-7 anni il gap accumulato nella crisi, invece che in 15 o 20. A quel punto, col Pil in più forte crescita, il debito si ridurrebbe significativamente per questa sola forza, visto che ciò che conta è il suo rapporto col Pil, e non il suo stock assoluto.
Altro conto è se Renzi riterrà invece davvero di voler esercitare comunque una rottura, anche sulla scena europea. Romano Prodi la chiede da tempo, disegnando un grande patto latino tra Italia, Francia e Spagna. Le premesse però non ci sono. Perché Hollande, in caduta libera, ha dovuto annunciare 50 miliardi di minor spesa e 30 di minori tasse entro fine 2016. Mentre la Spagna, attualmente, già cresce a un tasso tre volte superiore al nostro….anche se parliamo di un + 0,3% a trimestre rispetto a uno 0,1% nostro, che significa essere al di sotto di ogni soglia in realtà statisticamente rilevabile.
In nessuna occasione, in realtà, Renzi ha dovuto raccontare a fondo quale sia la “sua” visione dell’eurocrisi. Speriamo ricordi che la crisi italiana data da 10 anni buoni prima della moneta unica. E che dunque, euro o no, bisogna aggredirne alla radice i problemi. I difetti dell’euro ci sono eccome, ne abbiamo parlato tante volte e personalmente ero tra i pochi a farlo prima che adottassimo l’euro. È ovvio che, a mercati sottostanti separati e con permanenti diverse curve di costo, la moneta unica obbliga i paesi che non riequlibranio strutturalmente la bilancia dei pagamenti alla deflazione interna: e da noi, a bassissima elasticità salariale e incapaci di scambi “salario-produttività”, cio significa solo più disoccupati e meno impresa. Ma se tra il 2008 e il 2012 le sole banche francesi, tedesche e olandesi hanno fatto defluire dall’Italia capitali pari al 15,3% del nostro Pil, non è stato per un complotto ordito a tavolino alla Cancelleria tedesca, ma perché i 3 milioni di disoccupati italiani, i 4 milioni di pensionati a 500 euro al mese, e il Sud dimenticato, sono il prodotto di scelte sbagliate innanzitutto italiane, non solo europee.