Nel 1998, il regista franco-rumeno Radu Mihăileanu girò un film memorabile. Si intitola Train de vie e racconta il dramma dell’olocausto con un’ironia tanto fine e geniale da rendere La vita è bella di Benigni una pataccata buonista. Protagonisti del film sono gli abitanti di uno shtetl, un piccolo villaggio ebraico dell’Europa dell’est, i quali, per sfuggire ai rastrellamenti nazisti, decidono di mettere in pratica l’idea del pazzo del villaggio: costruire un treno — un treno identico a quelli dei deportati — dividere il villaggio in due gruppi e impersonare sia i nazisti che i deportati. Obiettivo: scappare verso l’Unione Sovietica, scampare al massacro.
Come nella vita, anche nel film il viaggio trasforma i viaggiatori e, nel treno in corsa, metafora della vita e della società, si ripropongono le storture del mondo che sta fuori: la divisione negli scompartimenti, tra finti soldati e finti deportati, ricreando le classi ricrea il conflitto, sulla cui spinta nascono istanze di uguaglianza, piccole carbonerie e, in risposta, le differenze sociali all’interno del treno si acuiscono e rischiano di far scoppiare tutta la baracca.
Qualcosa di simile, in un contesto che in realtà non c’entra proprio nulla — ovvero al netto dell’Olocausto, degli ebrei, dei nazisti e della brillante ironia di Tran de vie — accade in Snowpiercer (Transperceneige, nell’originale francese), un fumetto fantascientifico di ambientazione post-apocalittica pubblicato negli anni Ottanta in Francia e ora riproposto in edicola, in albo unico, da Editoriale Cosmo, anche in occasione dell’uscita nelle sale (giovedì 27 febbraio) dell’omonimo film che il regista sud coreano Bong Joon-ho ha tratto dal fumetto.
Siamo nel 2031, una sorta di apocalisse nucleare ha provocato una nuova glaciazione sulla Terra e quel che resta dell’umanità si è rifugiata su un treno, lo Snowpiercer «dai mille e uno vagoni», un treno che il freddo non intacca e che il ghiaccio non ferma. È «l’ultimo bastione della civiltà», è la sua più perfetta riproposizione, ma è anche, nello stesso tempo, al sua più aberrante negazione. Dalla locomotiva, santificata nella “santa Loco”, fino all’ultimo vagone, il mondo si replica con tutte le sue storture, le ingiustizie e le violenze.
Dai più ricchi ai più poveri, dal paradiso infernale di vizi e lussi delle prime carozze, all’inferno reale delle ultime, dove uomini e donne, «quelli della coda» vivono ammassati come bestie, anzi peggio, arrivando a cibarsi di cadaveri, un dettaglio che emerge tra le righe, perché di quegli ultimi vagoni non si sa quasi nulla. Perché nulla, ma soprattutto, nessuno se ne va da quell’inferno. Nessuno tranne Proloff, il protagonista del primo episodio della serie, pronto a sfidare i meno 85 gradi dell’esterno, bardato di stracci, pur di sfuggire alla coda. «Persino la morte bianca è meglio di quello che ci troverete», dice alle guardie, quando gli chiedono cosa diavolo lo ha spinto a scappare.
Scritto da Jacques Lob e da Benjamin Legrand, illustrato da Jean-Marc Rochette, Snowpiercer è soprattutto un gran racconto di fantascienza, di quella sociologica e distopica resa grande nel Novecento da maestri del calibro di H. G. Wells, Jack London, George Orwell, Ray Bradbury. Ma agli ingredienti classici del racconto distopico — ambientazione in un futuro prossimo, potere di stampo totalitario e società fortemente classista — Lob e Legrand aggiungono elementi tipici della fantascienza “intergalattica”: ovvero l’umanità ridotta a un piccolo gruppo di sopravvissuti che si rifugiano in un’Arca, cercando scampo, in un viaggio in realtà senza meta.
Lo Snowpiercer è la macchina perfetta, ideata per produrre l’energia che consuma, dotata di un laboratorio che produce cibo senza soluzione di continuità, sfruttando «un’enorme massa di carne sintetica che cuoce lentamente in un liquido speciale che in qualche modo la nutre». È probabilmente la più geniale delle invenzioni narrative degli sceneggiatori, è chiamata simbolicamente “Mamma” e «costituisce una sorgente infinita di carne, più tu la tagli e ne prendi pezzi, più lei ricresce! in realtà è così che si riproduce…».
Nel corso dei tre episodi che compongono la serie passano diversi anni, lo Snowpiercer prosegue la sua corsa e, tra ribellioni sedate, rapide soste per futili missioni e lotte interne di potere, la società si evolve nel peggiore dei modi: nascono credenze e sette che postulano la non esistenza del treno, che in realtà sarebbe invece una navicella spaziale (ammiccando un po’ a quel topos della fantascienza interstellare di cui parlavo prima), lotte interne di potere minano la stabilità della leadership e la stessa sopravvivenza del treno.
Fino a quando, a un certo punto, la radio capta un misterioso segnale che proviene dall’altra parte dell’oceano — nel frattempo ghiacciato, come tutto — è musica. È la prima volta, nella storia del treno, che viene registrato un messaggio proveniente da fuori, è il primo elemento di speranza di tutto il racconto, per la prima volta il viaggio ha una meta: forse c’è vita fuori dal treno, forse esiste ancora un posto sulla terra che può ospitare la vita, forse prima o poi il viaggio dello Snowpiercer finirà. Forse.