La Commissione europea ha inviato al ministero dell’Economia una richiesta di chiarimenti in merito alla rivalutazione delle quote di via Nazionale, ipotizzando che si tratti di aiuti di Stato. È quanto riferiscono a Linkiesta fonti interne al dicastero di via XX Settembre. Oltre alla tassazione delle rendite finanziarie, al taglio del cuneo fiscale e all’utilizzo della Cassa depositi e prestiti per pagare i debiti della Pa, sul tavolo del neoministro Pier Carlo Padoan si aggiunge dunque una nuova grana. Una tegola non indifferente a pochi giorni dall’avvio dell’asset quality review condotta dalla Banca centrale europea. A gennaio è diventato legge il decreto licenziato dall’esecutivo Letta che prevede l’aumento da 156mila euro a 7,5 miliardi del capitale di Palazzo Koch, detenuto da banche e assicurazioni, tra le quali spiccano Unicredit, Intesa Sanpaolo e Generali, complessivamente al 70 per cento. Le nuove norme prevedono un rendimento al 6%, un limite alle quote al 3% e l’eventuale riacquisto da parte di Bankitalia, tra tre anni, delle partecipazioni invendute.
Il provvedimento, che di recente ha scatenato episodi di wrestling sugli scranni del parlamento, non piace a nessuno. A inizio febbraio Adusbef e Federconsumatori hanno presentato un esposto a 130 Procure, alla Procura Generale della Corte dei Conti e alla Commissione Europea ipotizzando il reato di peculato, mentre soltanto sei giorni fa l’eurodeputato Idv Niccolò Rinaldi ha presentato un’interrogazione alla chiedendo alla Commissione se sono configurabili aiuti di Stato, «Considerato che non ci risulta che lo Stato Italiano abbia effettuato alcuna notifica volontaria», ha scritto Rinaldi. Il piatto è ricco: a Ca de’ Sass andranno 2 miliardi di euro, a Piazza Gae Aulenti (nuova sede di Unicredit, ndr) 1,45 miliardi, al Leone di Trieste 415 milioni, alla Cassa di risparmio di Bologna 409 milioni, citando i principali azionisti dell’istituto centrale. Se c’è chi, come Mps e Carige, esagerando con le rivalutazioni in bilancio è stato costretto a iscrivere a bilancio delle minusvalenze, altri come il Banco popolare – che in questi giorni ha depositato la documentazione per l’aumento di capitale da 1,5 miliardi – hanno invece stimato un beneficio lordo da 55 milioni.
Tante le questioni aperte. A partire dalla trasferibilità delle azioni: «Il fatto che siano riservate a intermediari finanziari europei non è una grande garanzia, visto che questi soggetti possono essere a loro volta controllati da altri soggetti, anche di altra natura e non europei. Il limite del 5 per cento può essere aggirato attraverso accordi che consentano a un gruppo di proprietari di coordinarsi tra di loro» sostiene su Lavoce Angelo Baglioni, docente di Microeconomia all’Università Cattolica di Milano. C’è poi la privatizzazione delle attività istituzionali di Bankitalia, sottolineato su Linkiesta da Fulvio Coltorti, una vita alla guida dell’Ufficio studi di Mediobanca: «Non è possibile affidare ai privati la ricca massa di attivi che oggi comprende in particolare una quantità di oro valutabile in oltre 70 miliardi di euro e un “tesoretto” portato in bilancio per oltre 38 miliardi». E i proventi dal signoraggio, che per loro natura sono un monopolio pubblico.
Infine, la la valutazione pari a un massimo di 7,5 miliardi costituirebbe un problema per il ruolo di “market maker” a cui è chiamata Bankitalia, con due gruppi come Intesa e Unicredit che venderanno al rialzo sul prezzo. Il problema è trovare compratori: «Sebbene Visco abbia detto ai giornali che ci sono fondi pensione e altri investitori istituzionali che hanno già manifestato interesse, ci permettiamo di dubitarne, pur riconoscendo al Governatore il diritto e l’onore di un bluff in una partita così importante», riflette Umberto Cherubini, docente di Finanza quantitativa presso l’Università di Bologna.
A inizio febbraio in una conferenza stampa di chiarimento tenuta assieme al direttore generale Salvatore Rossi, Ignazio Visco ha spiegato che quei 7,5 miliardi «Non sono soldi pubblici che si trasferiscono dal contribuente, dallo Stato, alle banche», aggiungendo: «Né lo Stato né i contribuenti sborsano alcunché per questa riforma». Per quanto riguarda i dividendi, ha specificato Visco, «non potranno mai eccedere i 450 milioni», e saranno legati alle condizioni di bilancio delle banche. Insomma, la rivalutazione «amplierà l’utile di esercizio che alimenterà la retrocessione allo Stato». Stando alle stime del governo, sono circa 1-1,5 miliardi gli introiti dalle imposte sulle plusvalenze guadagnate con la cessione delle quote che dovrebbero entrare allo Stato italiano. Cifre che per ora rimangono sulla carta.