Un pettirosso da combattimento

Dal 1974

Se le regole sono fatte per essere infrante, c’è qualcuno che ha saputo farlo meglio di chiunque altro. Se tutto sembra accadere nel solco già tracciato dal visto e rivisto, c’è qualcuno che rifugge il mestiere del replicante e rigetta fisiologicamente copioni già interpretati. C’è chi si beffa del conformismo procedendo in controtendenza. Qualcuno come Loredana Bertè, emblema italiano della ribellione al femminile  degli ultimi quarant’anni. Sono passate appunto ben quattro decadi dal 1974, quando uscì con il suo primo disco, Streaking, ad oggi, data del suo ritorno ufficiale sulle scene per celebrare una carriera senza eguali, scandita da un susseguirsi di successi indimenticati.

Ripartire con un nuovo tour non vuole essere l’ennesimo viaggio nei ricordi o la classica operazione nostalgia di un’artista a cui resta soltanto il revival come unica possibilità di sopravvivenza, ma un autentico tributo che la cantante dedica a se stessa e a tutti i suoi fan che non hanno mai smesso d’amarla. A dispetto di quanto cantava nel 1983, non ha ancora chiuso con il rock’n’roll, anzi è tutt’oggi l’antesignana nostrana di un genere di cui detiene lo scettro con disinvoltura. Quando si parla di Bertè, nel bene o nel male, non si parla mai solo di musica, ma al contempo di costume, società, famiglia, spettacolo, sofferenza e temperamento.  

L’analisi del suo personaggio inevitabilmente apre un dibattito sulla storia della canzone italiana, che si fa amaro su certi passaggi e che trova pace solo nella constatazione dell’unicità che la contraddistingue. Lo snobismo dei critici nei confronti del rock italiano non può non riconoscerle di diritto l’autorità in cattedra di autentica caposcuola del genere a discapito di tutte le neoreginette wannabe rocker a cui restano soltanto riverenza ed emulazione. Ribelle, controversa, scomoda ed eccessiva Bertè incarna la purezza del messaggio di cui il rock vuole essere portavoce, non come mera accozzaglia di suoni, ma come modo di sentire e pensare improntato alla libertà a alla curiosità immune da paradigmi nei confronti della vita.   

Chi legge la sua biografia, che potrebbe essere idealmente un’opera a quatto mani di Rimbaud e Verlaine, non può sbagliare, non c’è fatalismo che tenga a beneficio dell’etichetta della predestinata ad essere outsider, c’è solo il coraggio di una donna che ha scelto consapevolmente di opporsi alle convenzioni della società, tanto nella vita quanto nella musica, finendo paradossalmente per influenzarne stili e costumi.   

«Ma quale musica leggera, questa è una musica che pesa. C’è chi la sente e s’innamora, c’è chi la vive e si avvelena» canta in uno dei suoi ultimi brani rinnovata nel corpo, ma ancor più nello spirito. Il repertorio è tuttavia vastissimo, spaziare tra i capisaldi del suo registro, da Sei bellissima a Non sono una signora, da Una sera che piove a Il mare d’inverno, da Dedicato a E la luna bussò, significa attraversare col fiato sospeso quarant’anni di storia italiana. Una storia dolorosa quando ricorda la sorella Mimì e gli amici Fabrizio De Andrè e Rino Gaetano. Una storia tinta di rosa quando racconta senza rimpianti storie d’amore appassionate, concluse, ma indimenticate come quelle con i tennisti Adriano Panatta e Bjorn Borg. Una storia ricca di suggestioni e colpi di testa, quando ripensa a scelte artistiche che hanno precorso i tempi, come il finto pancione a Sanremo 1986 o l’abito da sposa disobbediente al Festivalbar 1982. Una storia piena di collaborazioni importanti come quelle con i grandi Francesco De Gregori, Ivano Fossati, Andy Warhol persino.

Impossibile o quanto meno riduttivo ipotizzare una fenomenologia esaustiva del personaggio. Bertè è un mondo a sé stante, Bertè è un paio di occhiali neri, Bertè vive nel presente e questo è l’importante. 

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