Siamo una società che guarda troppo al proprio interno, magari attaccata al passato. Non sorprende che anche nei nostri giornali ci sbrodoliamo addosso, guardandoci fisso l’ombelico.
Perché non provare a ridurre lentamente le dosi giornaliere, come si fa con le dipendenze acute? Scendiamo da dodici pagine prima a undici, poi a dieci per tentare, dopo qualche mese, l’audace balzo a nove. Così pian piano i nostri lettori potrebbero assuefarsi a trovare, già nelle prime pagine, le principali notizie su quanto accade al di là delle Alpi e delle nostre coste; senza più aspettare pagina 13, come oggi in genere accade, per gettare l’occhio oltre le mura del nostro cortile: splendido, ma piccolo, troppo spesso meschino.
Potremmo allora accorgerci che una maggior attenzione a quanto avviene nel mondo, inclusa la politica estera, interessa molto più di quanto si creda; e che alimentare tale interesse, lungi dal far crollare le vendite dei quotidiani, le fa risalire, rendendoci anche meno provinciali e litigiosi.
Se non c’è una grave crisi come quella ucraina, o una tragedia mondiale di cui riferire, oggi le prime dodici pagine dei nostri quotidiani trattano solo, rigorosamente, temi di politica interna. Il 14 gennaio trovavamo intere paginate con titoli come: «Il leader PD: non chiedo rimpasti, decida Letta». «Elezioni, i dubbi di Berlusconi. Non mi conviene votare a maggio». «La strategia di Letta: contenere il sindaco con tre mosse condivise». «Toti al vertice, dieci big in segreteria Berlusconi tenta l’ultima mediazione». Molto simili i titoli, ad esempio, del 28 dicembre: «Governo, parte l’offensiva renziana – Troppi errori o si cambia o si muore – A rischio ministri tecnici e centristi». «Cresce la tentazione rimpasto. Letta cauto: Vedremo tutto a gennaio nel patto di coalizione». «Letta-Renzi, vertice blindato sul contratto» «Governo e Pd il doppio fronte del leader» «Berlusconi pronto alla svolta – Ruolo di coordinatore unico a Toti».
Si potrebbe continuare all’infinito; che dire? Anzitutto, una notizia non è più tale se si ripete in onde successive, sempre uguali, se cioè un titolo del 14 gennaio può essere lo stesso del 28 dicembre o del 28 gennaio (questi ve li risparmio, tanto sono uguali). In secondo luogo, è difficile che, fra le cose più importanti accadute nel mondo quel giorno, ci sia proprio quella battuta del sottosegretario X in risposta all’affermazione del ministro Y, il quale a sua volta dava sulla voce al segretario del partito W, attaccando l’emergente consigliori del segretario stesso. Eccoci così al terzo punto, cruciale: la frivolezza occupa militarmente le prime pagine dei nostri migliori quotidiani, sottraendo attenzione e tempo (di chi scrive e di chi legge) a notizie e commenti che sarebbero più utili, interessanti, istruttivi e piacevoli.
È arduo vedere ancora, come Hegel, nella lettura del giornale la preghiera mattutina dell’uomo moderno, se essa ci avvolge in un clima da rissoso condominio, in un chiacchiericcio che si esalta del proprio rumore, spacciando per alta politica quel che vorrebbe essere, ma nemmeno ci riesce, politique politicienne.
Magari i lettori non lo avvertono subito, ma alla lunga sì: leggere e rileggere le stesse cose per settimane e percepirne l’irrilevanza (in assoluto e in relazione a quanto avviene nel vasto mondo) scoraggia l’abitudine all’acquisto del quotidiano. Perfino il lettore affezionato, pur resistendo a lungo a tale senso di fastidio (diamine, è suo dovere di cittadino seguire la vita politica del Paese!), ogni tanto salta sconsolato le fatidiche prime dodici pagine.
I tecnici del ramo ci spiegano che negli altri grandi Paesi europei (anche noi, e nonostante noi, lo siamo) ci sono due categorie di giornali; solo quelli di fascia alta dedicano spazio a quanto accade oltre i loro confini. Noi non abbiamo questa distinzione, ma poi facciamo una miscela, che finisce per trattare con stile «basso» argomenti «alti». Nel chiacchiericcio, tutti sono colpevoli, quindi tutti innocenti: potente alimento per un qualunquismo che non fa differenze.
È grave, ad esempio (anche se ce ne siamo già dimenticati), che una democrazia seria abbia varato una legge elettorale contraria alla Costituzione! Eppure dopo la sentenza della Consulta l’origine del Porcellum è trascurata. Chi l’ha voluto, chi l’ha approvato, chi l’ha licenziato? Anche allora da molti (quorum et ego) fu duramente criticata una legge che così palesemente piegava, alle immediate convenienze di una parte politica, funzione e rappresentatività del Parlamento.
In tutto il mondo cresce la distanza fra la «grande casta», cioè tutta una classe dirigente economica, politica e intellettuale che in Italia ha fallito (i risultati non ci danno scampo) eppure superba, copiosamente remunerata, e gli altri cittadini, in crescente affanno esistenziale questi, anche perché di quella pagano gli agi: compreso, a Milano, l’uso di lasciare una città non amata nel weekend. Essa fugge così l’unica occasione di mescolarsi con gli altri e capirli, o almeno conoscerli, un po’. Sobbolle per questo la rabbia di un imprecisato «noi» contro «gli altri», forte e pericolosa. Approfondire la visione oltre il cortile aiuterebbe anche a recuperare una prospettiva di comune appartenenza alla collettività, rimediando in parte ai danni prodotti.
Sappiamo che è la Tv ad imporre il suo stile, veloce, gridato, teatrale, ossessivo, superficiale. Se i giornali si «santorizzano», però, è anche in reazione alla crisi: seguire quanto accade fuori è costoso, mentre registrare il rumore di fondo romano costa poco, almeno agli editori.
Ciò ignora però le «esternalità negative», i costi fatti gravare su tutto il Paese, che da questa corsa verso il basso è immiserito e reso ancor più sfibrato, provinciale, distratto. Non sembri paradossale dirlo: anche noi che scriviamo sui giornali scarichiamo sulla società i nostri costi, come un’industria inquinante che risparmia emettendo veleni nell’aria. Il nostro prodotto così costa meno, ma è anche meno attraente per il cliente: comunque la differenza di costo la paga il Paese tutto, che si immiserisce mentre il mondo va avanti e non ci aspetterà.