Apologia di un regista maiuscolo
E dunque eccoci qua, forse un po’ stretti, sul carro del vincitore, Paolo Sorrentino, che è poi un gran vincitore, per quanto mi riguarda, che con un gran film ha portato a casa a mani basse un Oscar che mancava all’Italia da quindici anni. L’ultima volta era stata una notte di inizio primavera in cui Roberto Benigni, all’urlo «Robbberto!», di Sofia Loren, si mise a camminare e saltellare sulle sedie e suelle teste dei presenti in sala. Era il 1999 e Paolo Sorrentino probabilmente non aveva ancora iniziato a girare il suo primo lungometraggio, L’uomo in più,che uscì nel 2001.
Da quel primo lungometraggio sono passati 13 anni e il regista napoletano, ora 43enne, ha messo in fila altri cinque film, vincendo, oltre all’Oscar di ieri, un Golden Globe, un premio della giuria a Cannes, quattro David di Donatello e quattro Nastri d’argento. Più di chiunque altro in Italia, almeno per quanto riguarda la sua generazione.
Gioco subito a carte scoperte: Sorrentino mi è sempre piaciuto un sacco, a cominciare da L’uomo in più, passando da Le conseguenze dell’amore (che è ancora il mio preferito) e L‘amico di famiglia (che è quello che in realtà mi ha convinto meno), fino al Divo e a quest’ultima Grande bellezza. Non inserisco nell’elenco This must be the place. Non ne posso parlare perché non l’ho visto, non tanto per scelta, quanto per mancata opportunità. Recupererò a breve, comunque.
L’unica cosa che di Sorrentino boccio senza indugi è il suo — per fortuna — unico romanzo, Hanno tutti ragione, pubblicato da Feltrinelli nel 2010, che somiglia più alla sceneggiatura rinciccita di uno spin off de L’uomo in più — con Tony Pagoda nei panni di Tony Pisapia — che a un romanzo. Ma non gliene faccio una colpa: ofelé fa el so mesté, si dice a Milano per dire a ognuno il suo mestiere, e raramente ho trovato eccezioni alla regola.
E difatti Paolo Sorrentino non è uno scrittore, è un regista. Personalmente lo considero il migliore della sua generazione, sia dal punto di vista della regia e della qualità visiva delle sue storie (gran merito, quando c’è stato, a Luca Bigazzi, che ha curato la fotografia della maggior parte dei suoi film), sia da quello della scrittura, ovvero della narrazione e della sceneggiatura.
Gli elementi che rendono ai miei occhi i film di Sorrentino di un altro campo da gioco rispetto ai film di quasi tutti gli altri registi italiani affermati che conosco sono, in ordine sparso: la ricchezza barocca di inquadrature e piani sequenza, difficilmente neutri, la tragicomicità dei suoi personaggi, oscillanti costantemente tra l’epico e il grottesco, la potente retorica dei loro monologhi (qui di sicuro conta l’effetto Servillo), e ancora, la mediocre decadenza dell’Italia che fa da sfondo alle sue storie e, non è un dettaglio, il suo gusto per la finzione cinematografica, per il cinema come arte pura, che punta alla bellezza, e non è solo un mezzo per raccontare storie.
La grande bellezza si apre con una citazione tratta da un grandissimo libro, uno dei migliori del Novecento. È uno dei pochi che riesce a coniugare un grandioso realismo nel dipingere la mediocrità e la piccolezza dell’uomo con la rivelazione della finzione romanzesca e dell’immaginazione. È il Viaggio al termine della notte, di Louis Ferdinand Céline:
Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione.
Tutto il resto è delusione e fatica.
Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario.
Ecco la sua forza.
Va dalla vita alla morte.
Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato.
È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia.
Lo dice Littré, lui non si sbaglia mai.
E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto.
Basta chiudere gli occhi.
È dall’altra parte della vita.
Dall’altra parte della vita è anche il cinema, e Sorrentino lo fa notare spesso con dettagli o scene stranianti. Qualche esempio sopra tutti, a memoria: ne Le conseguenze dell’amore, a un certo punto, Titta guarda fuori dalla finestra, pensieroso, sotto il suo sguardo un ragazzo cammina e si schianta inavvertitamente sul palo, senza provocare in Titta nessuna reazione, che è invece tutta nello spettatore, ed è di straniamento. O ancora, la scena dell’incidente in macchina di Sofia, sempre ne Le conseguenze dell’amore, che avviene a un posto di blocco in cui il vigile è un manichino, un dettaglio decisamente straniante.
Ma l’elemento che più di tutti mi fa impazzire del cinema di Sorrentino sono i suoi personaggi, i suoi protagonisti, in primo luogo. Sono sempre (o quasi) delle storie di uomini la cui vita è segnata da grandiose ascese e altrettanto grandiosi fallimenti, storie epiche di mediocrità, il più delle volte. Ed è proprio questo contrasto, che purtroppo non so spiegare con parole migliori, che mi seduce.
Falliscono alla grandissima i due Antonio Pisapia de L’uomo in più, il primo nel mondo del calcio, il secondo — detto “Tony” — in quello della musica, e entrambi pagheranno con la vita il loro scacco. Fallisce epicamente il Titta Di Girolamo de Le conseguenze dell’amore, mentre affonda nella calce viva. Fallisce totalmente anche Geremia de’ Geremei, laido protagonista de L’amico di famiglia. Fallisce fino all’apoteosi anche il maestoso Giulio Andreotti de Il Divo, come pure lo scrittore Jep Gambardella che nella vita ha cercato La grande bellezza, ma non l’ha mai trovata, e si ritrova a vivere in un mondo posticcio di gloriosi falliti. [Escludo dalla lista Cheyenne di This must be the place, quel film non l’ho visto e «su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere»].
Insomma, quello che stanotte ha vinto l’Oscar con La grande bellezza, secondo me, è un regista come non ne avevamo da tanti anni. Anche guardando ai nostri ultimi Oscar, Benigni, Salvatores e Tornatore, mi sembra che Sorrentino abbia molta più audacia, ambizione, gusto e capacità di andare oltre la storia che sta raccontando.
Chioso e concludo con quello che conta di più nel cinema, ovvero il cinema stesso. Ecco quattro grandi scene tratte dai suoi film.
L’uomo in più, 2001: il monologo di Tony Pisapia
Le conseguenze dell’amore, 2004: Un giorno sbagliato, ovvero bisogna sempre avere fiducia negli uomini
Il Divo, 2008: il monologo del divo Giulio
La grande bellezza, 2013: Il discorso dela vocazione civile