Italia-Australia solo andata: ecco la nuova America

Cervelli e braccia in fuga

La nuova America si chiama Australia. Solo nel 2013 oltre 20mila giovani italiani sono partiti verso la terra lontana di sua maestà Elisabetta II con un visto temporaneo. Più di quanto accadeva nei primi anni Cinquanta, dopo la guerra, quando i nostri connazionali erano costretti a cercare fortuna a oltre 15mila chilometri di distanza da casa. Alcuni sono turisti, certo, altri studenti, ma nella maggioranza dei casi si sono trasferiti dall’altra parte del mondo per lavorare

I numeri di questo fenomeno, che con la crisi economica si sta facendo più robusto, li hanno raccolti in un rapporto tre italiani trapiantati in Australia. Titolo: “Da temporanea a permanente. L’immigrazione giovanile italiana in Australia”Il 30 settembre 2013, 18.610 italiani erano presenti sul territorio australiano con un permesso temporaneo, di cui più della metà (51,9%) giovani tra i 18 e i 30 anni. «Nel nostro rapporto», racconta Michele Grigoletti, già autore del libro Australia solo andata, che con Giordano Dalla Bernardina e Silvia Pianelli ha curato il report, «sottolineiamo l’utilizzo del visto Working Holiday come modo per entrare in Australia e cercare di rimanervi il più a lungo possibile, tentando di ottenere un impiego stabile».

Il modulo vacanza lavoro per molti è quindi solo un primo passo verso un visto a lungo termine. Il “417”, questo il numero del programma, permette a tutti i ragazzi di età compresa tra i 18 e i 30 anni di rimanere e risiedere in Australia per un periodo massimo di 12 mesi. Di questi visti, solo agli italiani, tra il 2012-2013 ne sono stati concessi quasi 16mila (+64% rispetto all’anno precedente). Tirando le somme degli ultimi otto anni, si raggiunge quota 51mila. «Viene utilizzato come punto di partenza di un percorso che porta all’immigrazione di tipo permanente», conferma Michele. Non a caso, più del 20% dei giovani italiani decide di rinnovare il primo visto per altri dodici mesi, rispetto al 12% dei coetanei francesi e al 7% dei ragazzi tedeschi.

«La situazione economica in Italia», spiega Michele, che da tempo studia l’emigrazione italiana mentre lavora per una multinazionale nel settore dell’IT, «induce il desiderio di avere un’alternativa e di averla in maniera rapida. I dati italiani sulla disoccupazione giovanile e la sensazione comune a molti giovani di vedere le proprie speranze disattese già intorno ai 20-30 anni causano la volontà e il bisogno di cambiare la propria situazione». E il visto Working Holiday risponde a queste necessità: si ottiene facilmente e con una burocrazia ridotta al minimo, garantisce la permanenza in Australia per un anno, e durante il periodo di permanenza è permesso lavorare. «Un “pacchetto” che agli occhi dei giovani italiani appare come una possibilità molte volte troppo ghiotta da perdere».

Ma c’è anche chi arriva in Australia con visti da studente, aumentati nell’ultimo anno del 30 per cento. O con il visto “457”, Temporary Work, che consente ai datori di lavoro australiani che non riescono a trovare forza lavoro locale di ricoprire le carenze di competenze attraverso l’assunzione di lavoratori qualificati provenienti dall’estero. Questo permesso dura un massimo di quattro anni e autorizza essere accompagnati dalla famiglia, ma il lavoratore deve trovare un’azienda che lo sponsorizzi. Gli italiani con un visto 457 presenti in Australia sono 2.670, il 14 per cento del totale, e anche in questo caso – si legge nel rapporto – questo visto tende a essere uno strumento per «un’emigrazione di sola andata». In cima alle professioni più richieste c’è il cuoco (3.040 visti concessi nel 2012-2013), seguito dal program administrator, restaurant manager e programmatore. Alcuni, nonostante le leggi restrittive sull’emigrazione vigenti nel Paese, alla fine riescono a ottenere un visto di residenza permanente: nel 2013-2013 agli italiani ne sono stati concessi 924, con un aumento del 12,87% rispetto all’anno precedente. Tra gli ultimi celebri italiani trasferitisi in Australia, c’è anche l’ex juventino Alex Del Piero, che ora indossa la maglia del club del Sydney. 

Ma ad aspettare gli aspiranti australiani non ci sono solo spiagge paradisiache, canguri, koala e lunghe partite a rugby. C’è un Paese che certo si fa conoscere per l’“ottima qualità di vita”, la sua “vivace economia” e le “maggiori opportunità”. «L’Australia offre tutto questo a coloro che sono disposti ad andare così lontano. Lontano non solo geograficamente, ma anche come mentalità», assicura Michele. «Non è diversa dall’Italia solo sul piano economico e lavorativo, ma anche a livello sociale». Ma non è mica il paese dei balocchi. «Non è un Paese dove è facile ottenere tutto, ma più facilmente rispetto rispetto ad altri Paesi». Non ci sono garanzie di successo, insomma, «soprattutto in tempi recenti, quando il maggior numero di persone che decide di spostarsi causa inevitabilmente un aumento delle competenze richieste per far fronte alla concorrenza». E le competenze, inglese in primis, crescono restando sul posto.

Michele Grigoletti, veronese, ormai è un immigrato di lunga data. Vive fuori dall’Italia da 15 anni. Prima in Inghilterra, per cinque anni. Poi in Australia, dal 2004. «Ricercavo una realizzazione professionale e indirettamente personale che il mondo lavorativo italiano, molto provinciale, non mi offriva. Le offerte c’erano e così sono partito», racconta. «Nell’arco di tre anni, in relazione con la mia aumentata abilità linguistica, ero diventato responsabile di un gruppo di persone. Difficile pensare di poter riuscire a ottenere gli stessi risultati in Italia». Le sue parole sono il risultato di chi ha vissuto sulla propria pelle il bello e il brutto di un viaggio di sola andata: «L’Australia rappresenta un percorso che inizia non appena il giovane italiano atterra all’aeroporto della città prescelta. Da lì in poi inizia la sfida che molti decidono di accettare, assieme alle tante difficoltà che questa sfida comporta. L’Australia è un viaggio dall’altra parte del mondo, che ogni anno un numero sempre maggiore di giovani italiani decidono di intraprendere».

E non si tratta più ormai di una «migrazione specializzata di “cervelli in fuga”», precisa, ma di un «fenomeno di massa definito per caratteristiche e professionalità», che Michele definisce «emigrazione del terzo millennio». A lasciare l’Italia «sono spesso brillanti laureati, tecnici, imprenditori, personale qualificato, studenti e talenti vari».

Come Silvia Pianelli, 30 anni, tra gli autori del report, che da Bergamo ha deciso di stabilirsi a Sydney, dove si occupa di marketing e comunicazione e mantiene i contatti con l’Italia facendo anche la giornalista freelance per alcune testate italiane. «Il motivo principale che mi ha spinto a cercare lavoro all’estero è stato la mancanza di trovare un lavoro che mi offrisse uno stipendio ragionevole per permettermi di vivere da adulta e diventare indipendente», racconta. «Trovare lavoro era facile, ma le posizioni offerte erano sempre poco retribuite perché pare che in Italia la gavetta sia infinita». Quindi decide «di cercare un lavoro, gratificazioni e rispetto della professionalità altrove». Quando è partita aveva 27 anni. «Sono stata abbastanza fortunata nel trovare un’azienda disposta a offrirmi un impiego per pochi mesi. Ma le cose cambiano e sono ancora qui».

Ma come ogni storia di emigrazione, c’è anche l’altra faccia della medaglia, nonostante – dice – «qui ci sia maggiore rispetto per le persone, per il lavoro lavoro, per le loro idee, e gli ambienti di lavoro siano più dinamici rispetto a quelli italiani e processi decisionali più snelli». Spostarsi a 15mila chilometri da casa non è semplice. Oltre alle difficoltà legate ai visti, «ci sono difficoltà che spesso gli italiani in patria dimenticano quando dicono che siamo fortunati e che per noi è stato facile andarsene, scappare dalla crisi. Non siamo in Europa, siamo lontani. Ventiquattro ore di volo per riabbracciare mamma, papà, fratelli e amici. La mancanza degli affetti, soprattutto per chi parte da solo come me, si sente e a volte non si più far nulla, solo aspettare che il momento di malinconia passi. Internet per fortuna ha facilitato le comunicazioni, rendendole poco costose e immediate, ma ovviamente una chiacchiera su Skype non ha un valore paragonabile a una chiacchierata nel salotto di casa di fronte a un tè». Poi ci sono «le difficoltà linguistiche, le differenze culturali. Per non parlare di quelle culinarie. A volte prima di conoscere la qualità di alcuni prodotti alimentari si corre il rischio di creare orrori in cucina. Direi che ce n’è per tutti i gusti, giusto per non annoiarsi mai».

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