#Italia2014 Alla ricerca della Renzinomics

Il modello economico del rottamatore

Cosa vuole fare, per davvero, il pie’ veloce Renzi? Di idee, mezze proposte, piani e progetti ne circolano in abbondanza; anche se spesso sono ballon d’essai. La Repubblica annuncia: “Ecco il piano per il lavoro”, sussidio di disoccupazione a tutti, con 1,6 miliardi in più rispetto ai risparmi realizzabili tagliando la cassa integrazione in deroga. Poi a leggere l’articolo si scopre che si tratta della elaborazione dal politologo Stefano Sacchi fatta filtrare da Filippo Taddei, responsabile economico del Pd, il quale confessa: “Ne parleremo con il ministro del Lavoro Giuliano Poletti”. 

Lo stesso vale per la girandola fiscale: più imposte sulle rendite finanziarie (definizione generica per intendere la tassazione sugli interessi e i capital gains) e meno sul lavoro (salari, profitti o entrambi), con un aggravio anche sulle rendite immobiliari per coprire i buchi degli enti locali (Roma docet). Se ne è parlato con il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan? 

L’idea di usare la Cassa depositi e prestiti per pagare i debiti della Pubblica amministrazione rilanciata da Franco Bassanini, è una elaborazione di Astrid, il pensatoio fondato e guidato dal presidente della Cdp. Si stimano oltre cento miliardi, ma secondo la Ragioneria è una esagerazione, infatti non tutte le richieste di chi ha fatturato allo stato centrale e agli enti locali corrispondono a quanto è stato realmente realizzato, non si sa se i prezzi sono gonfiati, se beni e servizi soddisfano alle richieste e alle esigenze.

Un lavoro complicato che spetta ai ragionieri dello Stato e ai commissari di Carlo Cottarelli. Campa cavallo. A meno che non si decida di far finta di niente erogando cento miliardi sulla parola. Chi paga? La Cdp con i buoni postali e con le garanzie del Tesoro? Cioè alla fine della fiera con le risorse di Pantalone; un deficit spending keynesiano in salsa assistenziale democristiana.

Il tourbillon al quale noi giornalisti contribuiamo a man bassa, fa parte della novità, delle legittime attese che Renzi e i suoi boys hanno messo in moto, aspettative che si espandono fuori dai confini e arrivano fin sulle rive del Tamigi. Bene. Tanto più, allora, diventa cruciale rispondere alla domanda dalla quale siamo partiti.

Cosa vuol fare Renzi dipende dalla sua volontà, dalla forza politica del governo, dalle circostanze esterne e dalla fortuna (come insegnano i classici). Ma anche dall’idea d’Italia, dal paradigma che ispira gli uomini nella stanza dei bottoni. Sappiamo che Renzi vuole innovare, che vuole (e deve) far presto, che non ha paura di bombardare il quartier generale. La sua rivoluzione culturale comincia con il rifiuto di vecchi schemi e di approcci ortodossi, non sappiamo però qual è la lettura della realtà dalla quale parte. Conosciamo l’invito sacrosanto a non piangersi addosso e a rimboccarsi le maniche, tuttavia è solo ottimismo della volontà? 

Il dibattito ormai ventennale sulla crisi italiana è giunto a definire alcuni modelli di riferimento; schematizzando, possiamo individuarne quattro: il modello Bankitalia che punta sulla crisi di produttività del sistema; il modello quarto capitalismo; il modello neolaburista; il modello slow.

1-Bankitalia. Fanno da punto di riferimento i lavori condotti sulla economia reale, in particolare sotto l’impulso di Salvatore Rossi oggi direttore generale e di Ignazio Visco oggi governatore. La banca centrale punta il dito sul capitale, sul lavoro e sullo stato. La produttività del capitale è bassa per colpa di una classe imprenditoriale troppo abituata al protezionismo e all’assistenza pubblica, restia a crescere per paura di perdere il controllo. Ma nelle imprese maggiori ha le sue belle responsabilità un ceto di manager che, guardando ai dividendi per far contenti gli azionisti, ha depresso gli investimenti nel medio periodo. Il sindacato, dal canto suo, nell’illusione di difendere antiche conquiste, ha finito per non proteggere nemmeno i salari e i posti di lavoro garantiti. Visco ha messo all’indice anche il conservatorismo di un ceto burocratico restio a cambiare per salvaguardare il proprio potere di veto sotto forma di diritti acquisiti, e ha lanciato un’accusa durissima nelle considerazioni finali dello scorso anno

La ricetta, a questo punto, passa attraverso un ampio range di riforme di struttura. Per gli uomini della Banca d’Italia e per Mario Draghi che li ha in buona parte ispirati e oggi li sorveglia da Francoforte, la risposta viene dalla politica dell’offerta, resa credibile da un bilancio pubblico in ordine che non spiazzi gli investimenti privati, e accompagnata da una politica monetaria stabile (espansiva, ma non troppo in questa fase deflazionistica, restrittiva con giudizio quando si ripresenta l’inflazione). Se Renzi è d’accordo, allora la sua politica economica non sarà molto diversa da quella di Mario Monti o Enrico Letta, sia pure con meno flemma e più allure giovanilistico.

2- Il quarto capitalismo. Qui si parte da Fulvio Coltorti di Mediobanca, con l’aggiunta delle ricerche di Marco Fortis (per la Fondazione Edison) sull’esportazione e le mille nicchie d’eccellenza. Secondo questi studiosi, le parti più sane dell’industria italiana, le imprese di medie dimensioni, sono competitive tanto quanto il Mittelstand che rappresenta la vera forza tranquilla del modell Deutschland. Produttività, costo del lavoro, tasso d’innovazione, export nei paesi fuori dell’euro, in tutto e per tutto non ci sono differenze fondamentali; e ciò ha consentito all’Italia di conservare la sua quota di commercio mondiale soprattutto in termini di valore aggiunto, spostandosi sull’alta gamma e specializzandosi. Il punto debole è che in Italia è crollata la grande industria (in buona parte per incapacità del grande capitale ad adattarsi alla globalizzazione), mentre non è cresciuto un settore dei servizi adeguato. 

Come insiste da tempo Giuseppe Roma del Censis, l’Italia non esporta terziario, ma solo manufatti. L’inefficienza dei servizi è una delle peggiori palle al piede del paese. Proprio il Censis di Giuseppe De Rita con la sua teoria dei cespugli, sviluppando il piccolo è bello di Gorgio Fuà e di Giacomo Becattini, ha dato un contribuito determinante a una lettura anti-declinista dell’economia italiana. E ha valorizzato la capacità di adattamento, anzi la risposta ai conflitti sociali degli anni ’70 e alla crisi del fordismo, quindi della grande industria. Oggi è De Rita stesso ad ammettere che la realtà è cambiata e quella interpretazione ha perso la sua capacità euristica nel momento stesso in cui il localismo, la cultura borghigiana ha esaurito la propria spinta propulsiva. Se tutto ciò è vero, le riforme strutturali sono una condizione necessaria, ma non sufficiente. Coltorti insiste da tempo che la domanda estera ha fatto il pieno, una ripresa tirata solo dalle esportazioni è una illusione, quindi bisogna aumentare la domanda interna.

3- I neolaburisti. Ciò ci conduce all’ampia pattuglia keynesiana che attraversa sia la destra in Forza Italia (si pensi alle proposte di Renato Brunetta) sia la sinistra nel Pd (per esempio Stefano Fassina) e oltre. Nessuno di loro nega che anche il sindacato debba fare la sua parte, ma ci vuole un impulso dalla politica fiscale e da quella salariale. Meno tasse e più investimenti (edilizia, infrastrutture) per i keynesiani di destra; meno imposte sul lavoro, aumento delle retribuzioni e della spesa sociale, per i keynesiani gauchiste. Per l’uno e per l’altro, si può abbattere il tabù del tre per cento nel rapporto tra disavanzo pubblico e prodotto lordo. La Francia è ormai vicina all’otto, la Spagna tanto esaltata perché ha licenziato a go go e tagliato i salari, è tra il 6 e il 7%. Entrambe hanno ottenuto deroghe di fatto sine die dalla Ue, nonostante il loro debito pubblico sia ormai al cento per cento. Dunque, la rigidità imposta all’Italia viene considerata una discriminazione bella e buona.

4- L’economia lenta. Anch’essa ha un fascino trasversale. Si va dalle tesi estreme sulla decrescita felice alla Serge Latouche che affascinano i grillini e l’estrema sinistra, al neo-ecologismo da chilometro zero, fino alla giustificazione sociologica della stagnazione da eccessivo benessere, come nel nuovo libro di Luca Ricolfi (L’enigma della crescita) che fa eco alla provocazione lanciata da Larry Summers nel novembre scorso al Fondo monetario internazionale (per l’ex segretario al Tesoro di Bill Clinton, il destino dell’Occidente è una stasi di lungo periodo). 

Si tratta di un neo-malthusianesimo ricorrente in tempi di bassa congiuntura. Per chi ragiona in questo modo, è inutile, anzi pericoloso forzare il “tasso naturale” vicino allo zero, al quale le società opulente si stanno avvicinando. Bisogna accompagnare questo adattamento, riducendo l’impatto sociale negativo, favorendo il passaggio dall’industria ai servizi, puntando sulla cultura, sul tempo libero (quindi riduzione dell’orario), garantendo a tutti un reddito a prescindere dal lavoro che non è più il valore fondante della società, ma un disvalore, come sostiene Beppe Grillo. Tante isole pedonali, poste ciclabili, bed & breakfast e pizzerie. L’Italia trasformata, come nei sogni germanici, nella Florida d’Europa. 

La Renzinomics, per quel che abbiamo capito finora, ha molti padri e molte madri. Lo stesso Renzi sembra prendere fior da fiore. Vuole un’Italia moderna ed efficiente come le società del nord, un mercato del lavoro flessibile e meno tasse per ridurre la disoccupazione (economia dell’offerta), ma sente anche sul collo la pressione del Pd neolaburista, crede che la cultura è il nostro petrolio e il turismo la nuova Fiat. Conosce bene punti di forza e di debolezza delle multinazionali tascabili che abbondano nella parte d’Italia che gli è più vicina, ascolta il “liberismo di sinistra” predicato dalla premiata coppia Alesina & Giavazzi sul Corriere della Sera, anche se sta attento a non esagerare con le privatizzazioni. Vuole lanciare un’ondata di rottamazione nell’industria a partecipazione statale, però teme di non trovare manager all’altezza. Vittorio Colao è un gran nome e ha fatto benissimo a Vodafone, tuttavia in Rcs si è perso nelle guerre intestine della proprietà e alla fine ha ceduto al potere di Paolo Mieli e alla sua rete di relazioni politico-finanziarie. 

Renzi, abilissimo tattico, sa essere rapido, ma sente anche il fascino della prudenza. E’ evidente che la crisi italiana ha molti volti perché stiamo parlando di un paese grande, complesso, in larga parte manifatturiero, non di una monocoltura economica. Quindi, una risposta coerente deve basarsi su un paradigma analitico anch’esso coerente. Aspettiamo che il nuovo governo ce lo spieghi.

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