Quando parla, Vladimir Putin è sempre molto chiaro. I suoi discorsi sono diretti, nei punti chiave non si prestano a troppe interpretazioni, eccetto a quelle che fanno comodo o meno a chi le ascolta. Il discorso di martedì davanti alla Duma, ai membri del Consiglio della Federazione, ai governatori e ai rappresentanti della società civile è solo l’ultimo esempio. L’occasione è stata data dagli eventi in Ucraina e in Crimea, in seguito al referendum che ha sancito, unilateralmente, la secessione della penisola sul Mar Nero da Kiev e la sua prossima annessione alla Russia.
Putin ha chiesto al parlamento di votare una legge costituzionale al più presto: due nuovi soggetti entreranno così a far parte della Federazione, la Crimea appunto, e Sebastopoli, la città a statuto speciale dove è stanziata la flotta del Cremlino. Putin non si è soffermato però solo sulla questione ucraina e ha illustrato la prospettiva del Cremlino sui rapporti tra Russia e Occidente dal crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 sino ad oggi.
Ecco perché la parte del discorso che riguarda il ruolo della Russia sulla scacchiera internazionale e le relazioni con il resto del mondo, quello occidentale almeno, è fondamentale per capire le mosse passate, presenti e future di Mosca: per il fatto che «la situazione ucraina riflette quello che sta accadendo e quello che è successo nei decenni passati».
Parlando della vicenda della Crimea e della sua annessione, Putin, rispolverando la storia condita con retorica neoimperialista, si è sostanzialmente rivolto al popolo russo e solo incidentalmente alla platea internazionale, proprio per soddisfare gli appetiti interni e la sete di grandezza che è intrinseca al Cremlino. Ma i passaggi significativi sono quelli riservati ai centri di potere occidentale, da Washington a Berlino. E da questo punto di vista il presidente russo non ha fatto altro che ribadire i concetti che già nel 2007 alla Conferenza internazionale sulla sicurezza di Monaco aveva bene espresso e che sono rimasti inascoltati con le prevedibili conseguenze. Il suo discorso di allora contiene infatti tutti gli elementi che Putin ha snocciolato a distanza di oltre sette anni.
Il nodo centrale è la visione della Russia di un mondo multipolare e non più unipolare, in cui la Russia, al pari delle nuove potenze emergenti, affianca gli Stati Uniti e non rimane in posizione subordinata come accaduto nel primo quindicennio dopo la dissoluzione dell’Urss. In questa chiave il Cremlino, quello di Putin, non ha mai accettato le mire espansionistiche della Nato nell’Europa dell’Est. Nonostante le promesse, non messe nero su bianco, ma fatte da Washington e ascoltate a Mosca, l’Alleanza atlantica si è allargata a oriente. I progetti di scudo stellare in Europa sono stati condotti contro il volere di Mosca. Le rivoluzioni colorate pilotate hanno mischiato le carte in diverse repubbliche ex sovietiche, dalla Georgia al Kirghizistan, passando ovviamente per l’Ucraina.
«Penso che sia ovvio che l’espansione della Nato non ha niente a che fare con la modernizzazione dell’Alleanza stessa o con la necessità di rendere più sicura l’Europa. Al contrario, rappresenta un grave fattore di provocazione che riduce il livello di fiducia reciproca. E noi abbiamo il diritto di chiedere: contro chi si sta svolgendo questa espansione?». Così chiedeva Putin nel febbraio 2007. E nel marzo 2014 ha replicato: «Noi capiamo cosa sta succedendo, ci rendiamo conto che queste azioni (la rivoluzione del 2004 a Kiev) erano dirette contro l’Ucraina e la Russia e contro l’integrazione eurasiatica. E tutto questo mentre la Russia si è sforzata di avviare un dialogo con i nostri colleghi in Occidente. Questi hanno mentito molte volte, preso decisioni alle nostre spalle, ci hanno posto davanti a un fatto compiuto. Questo è accaduto con l’espansione della Nato verso l’Est, così come la diffusione di infrastrutture militari alle nostre frontiere, con l’implementazione del sistema di difesa missilistico. A dispetto di tutte le nostre apprensioni il progetto sta andando avanti”.
Per Vladimir Putin, che aveva teso la mano all’Occidente appena arrivato al Cremlino (basta leggersi il discorso fatto al Bundestag, il parlamento tedesco, nel settembre 2001, due settimane dopo l’attacco alle Torri gemelle), la Russia non è stata considerata da Washington un partner di pari grado e il doppiopesismo utilizzato nei confronti di Mosca, unito all’unilateralismo nella risoluzione delle crisi internazionali a partire dalla guerra in Iraq nel 2003, hanno fatto scattare prima il campanello d’allarme, poi i riflessi di una difesa che si è tramutata in attacco.
Dopo la dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo nel 2008, sono arrivate la guerra in Georgia e ora la crisi ucraina, nella quale l’Occidente dal punto di vista russo «ha oltrepassato il limite». Il riferimento esplicito è al cambio di regime a Kiev, con la fuga di Victor Yanukovich e l’accordo sottoscritto tra l’ex presidente, l’allora opposizione e i tre ministri degli Esteri di Germania, Francia e Polonia che è diventato carta straccia senza che a Berlino o Washington qualcuno facesse una piega per l’arrivo al governo della destra estremista di Svoboda sostenuta dai gruppi militari di Pravyi Sektor, ora cooptati anche nella nuova Guardia nazionale.
Sull’Ucraina infine Vladimir Putin si è espresso chiaramente: «Non vogliamo dividere l’Ucraina, perché non ne abbiamo bisogno». Il messaggio è chiaro. Al di là delle provocazioni, la Russia non entrerà con i tank a Donestk o Kharkiv perché non le conviene, sia sul versante internazionale che su quello bilaterale. Il Cremlino pensa cioè di gestire i rapporti con l’elite ucraina più o meno come ha sempre fatto sino ad ora. La frase forse più efficace è però quella su cui c’è davvero poco da discutere: «È il popolo ucraino che deve mettere ordine a casa propria». Kiev si trova davvero di fronte a sfide, economiche e politiche, enormi e la classe politica attuale, nonostante la buona volontà di pochi, sembra ancora tutta imprigionata nei meccanismi del passato. Senza contare il peso di una destra estremista e paramilitare che se ha forse il pregio di non essere corrotta, non avanza sventolando le bandiera della democrazia e della tolleranza.
Difficile insomma che chi ha portato l’Ucraina al collasso in questi anni – e i problemi non sono stati quando nel 2010 è arrivato Yanukovich, ma hanno radici ben più profonde – possa ora risollevarlo dall’abisso. Nemmeno finché l’Ucraina continuerà a essere terreno di gioco tra la Russia e l’Occidente (gli Usa in particolare), che non stanno facendo altro che utilizzarla per i propri interessi geopolitici.