L’operazione ortopedica ora la fa il robot

rubrica Scienza&Salute

Lunedì prossimo tre donne e due uomini saranno sottoposti alla prima operazione ortopedica completamente robotizzata, in un ospedale pubblico italiano. Lui, il robot che seguirà l’operazione, si chiama Rio Mako System ed è nato in America otto anni fa. Loro, i pazienti, sono abbastanza tranquilli e anzi quasi più sereni, «perché il robot diminuisce gli errori in sala operatoria» spiega a Linkiesta Norberto Confalonieri, primario e direttore di struttura complessa di Ortopedia e Traumatologia degli Istituti Clinici di Perfezionamento (C.T.O.) di Milano, dove è stato inaugurato il nuovo reparto di ortopedia e traumatologia dedicato alla chirurgia ortopedica computer e robot assistita. L’operazione consisterà nell’impiantare una protesi in titanio nel ginocchio, per sostituire la cartilagine mancante e correggere l’artrosi compartimentale.  

Ma cosa succede quando a vestire i panni del chirurgo è un robot?  Niente macchine che si sostituiscono all’uomo in stile R.U.R. (Rossumovi univerzální roboti ovvero “I robot universali di Rossum”, opera teatrale di Karel Capek), ma piuttosto un ausilio in grado di semplificare e perfezionare il lavoro umano: il robot è l’instancabile braccio capace di eseguire l’operazione all’infinito, mentre l’uomo è colui che pensa. L’atto del robot è la fase finale di una preparazione precedente che il chirurgo svolge insieme al bioingegnere sulla tac del paziente. Prima di eseguire l’intervento, infatti, viene realizzata una simulazione sulla tac: si posiziona virtualmente la protesi sulla tac e si corregge la deformità artrosica. Dopodiché questi dati vengono inseriti nel computer che guiderà il robot durante l’operazione per togliere la porzione di osso precedentemente stabilita. «Il braccio del robot non può uscire dallo spazio che abbiamo stabilito prima, non può andare da un’altra parte o togliere una porzione di osso maggiore o minore» continua Confalonieri. «L’utilizzo del robot è una sicurezza per il paziente, perché al contrario dell’uomo non ha bisogno di dormire, non litiga con la moglie, o ha problemi di diverso tipo, e può ripetere questo movimento all’infinito su tutto l’arco della giornata. Essere operati alle 7 del mattino è ben diverso infatti dall’essere operati alle 19 di sera: il chirurgo è un uomo, può sbagliare, il robot no».

Rio ha un braccio con inserita una sorta di “penna con attaccata una pallina che gira”, un mulino, in grado di rimuovere la porzione di osso precedentemente individuata, per poter poi impiantare la protesi di ginocchio e correggere la deformità artrosica. «Noi posizioniamo il robot vicino al ginocchio, che riconosce grazie a dei sensori, poi lo facciamo partire. Ma restiamo lì vicino e seguiamo l’operazione da vicino, con il controllo sul robot durante tutto il tempo».

I vantaggi per i pazienti sono una maggiore precisione, accuratezza e riproducibilità dell’atto chirurgico. Inoltre l’approccio robotico è meno invasivo e permette di risparmiare i tessuti coinvolti nell’intervento, la cicatrice è più piccola e la velocità di ripresa maggiore: già dopo 15 giorni il paziente può abbandonare le stampelle. Inoltre garantisce un miglior allineamento delle componenti protesiche, il che significa che un protesi invece di venti anni può durare anche tutta la vita. Con vantaggi immediati per il paziente e a lungo termine anche per il Sistema sanitario nazionale.

Il vero goal di questo intervento però è la pianificazione sulla tac, come spiega Confalonieri, «quello che ha cambiato davvero il nostro lavoro in sala operatoria è il computer non il robot: è questo che ci dà le informazioni durante l’intervento, permette di vedere il ginocchio sul display, ci dice quanti millimetri togliere, se stiamo raddrizzando bene il ginocchio e così via». Prima di arrivare a questo punto, negli anni ’90 furono introdotti i primi robot chirurgici derivati dall’uso industriale (RoboDOC 1992 e Caspar 1997) per fornire supporto e immobilizzare il paziente. Poi son stati fatti diversi tentativi con il robot, attivi, semiattivi, manuali, e con i piccoli robot. Nel 2005, infine, la prima versione del robot RIO Mako, ha ottenuto la certificazione della Food and Drud Administration e nel 2006 Rio ha operato il primo paziente.

Oggi in giro per il mondo ci sono circa 170 Rio di cui la maggior parte si trovano negli Stati Uniti e solo tre in Italia: questo è il quarto. Si tratta di una chirurgia di nicchia con numeri in crescita soprattutto in Asia, «dove c’è un altro concetto di intervento chirurgico sull’uomo – precisa Confalonieri –  e si cerca di utilizzare tutta la tecnologia possibile. Il problema principale è che si tratta di una tecnologia molto impegnativa, sia in termini di costi sia di tempo: il robot costa 1,2 milioni di euro e prima di ogni intervento è necessario eseguire il planning il giorno prima, e si perdono circa dieci minuti per ogni intervento per la preparazione. Dieci minuti per 5-6 interventi al giorno, significa perdere un intervento al giorno. Fatto che non rende felice il Direttori generale delle strutture pubbliche come delle private».

Nonostante quelli che possono essere considerati indubbi vantaggi, per ora la vita di Rio e di tutti i suoi simili non è ancora facile. Il quarto Rio installato in Italia, è il primo a essere “accolto” in un ospedale pubblico. «Gli altri tre si trovano in strutture private – conclude Confalonieri – dove questo tipo di tecnologia riesce a entrare più facilmente perché attira pazienti e quindi guadagno. Nel pubblico la questione è diversa e il tempo per ammortizzare la spesa è ancora molto lungo». Chissà forse un giorno uomini e robot lavoreranno fianco a fianco in tutte le sale operatorie, ma per riuscire a immaginarlo è necessario guardare molto più in là. 

In collaborazione con RBS-Ricerca Biomedica e Salute

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