Che ne pensate di un ragazzo che si sveglia presto, viaggia, si siede a una scrivania, prende nota di quello che dicono e fanno i suoi professori, per tutto il giorno? Anzi, per tre mesi; poi si presenta all’esame e si mette alla prova, magari elabora un progetto o risolve un problema: se lo fa, passa l’esame e prosegue gli studi. Il suo amico si sveglia alla stessa ora, va al lavoro, prende nota di ciò che dicono e fanno i suoi colleghi, per tutto il giorno. Dopo qualche mese inizia a collaborare a un progetto in azienda: se ha capito che cosa fare e come farlo, il suo capo gli affida altri problemi e altri progetti. Alla fine dell’anno, entrambi hanno maturato competenze e conoscenze, ma restano due grandi differenze. Uno: il primo paga, magari profumatamente, la sua università, mentre il secondo non lo pagano. Due: il primo è considerato un ottimo esempio da seguire, il secondo uno che si vende gratis e ruba il lavoro agli altri.
Questo non è il classico articolo “acchiappa-like”, lo so. La possibilità di essere frainteso è fin troppo alta, così come la rabbia di chi è costretto a lavorare gratis. Perché con una pacca sulla spalla non si arriva a fine mese. Perché gli abusi sono all’ordine del giorno.
Cavalcare l’onda della propaganda, però, è facile, e non è il mio obiettivo. Quindi lo dico subito: il lavoro dev’essere pagato. Sono d’accordo. Chi lavora senza ricevere in cambio un compenso economico, in qualche modo se lo può permettere. Ha una famiglia alle spalle, per intenderci. Ma è sempre così? E poi, davvero lavorare con il solo scopo di imparare un mestiere o di coltivare relazioni può essere considerato un diverso tipo di investimento rispetto a chi è disposto a pagarsi corsi universitari prestigiosi – alcuni fino ai 30 anni – o master costosissimi con la speranza di trovare successivamente un lavoro?
Sul tema il web è scatenato. Leggo: «Chi lavora gratis rovina il mercato. Se lavori gratis, chi ti fa lavorare sceglierà sempre te solo per questa ragione. E quindi tu non migliorerai e produrrai cose sempre mediocri, la tua professionalità e il lavoro che svolgi saranno svalutati, i tuoi colleghi non riusciranno a farsi pagare e la qualità del lavoro si abbasserà. Pensa al giorno in cui, bravo professionista, ti preferiranno un pivello che accetta di fare l’eterno stagista e di lavorare (male e) gratis al posto tuo». (dal blog di Silvia Bencivelli, giornalista scientifica). È solo una delle opinioni più diffuse, rilanciata da giornali, blog e social network. Ma tutti sembrano essere d’accordo: chi accetta di lavorare gratis è causa del suo male e di quello degli altri.
Giuseppe Bertagna, professore ordinario all’Università di Bergamo e pedagogista, non la pensa così. «Se un ragazzo è disposto a pagare per un certo tempo la propria formazione accademica, significa che si aspetta una restituzione, in questo caso un vantaggio di tipo formativo e professionale. Paga per maturare apprendimenti, competenze personali. La stessa cosa potrebbe capitare in un lavoro. Accetto, per un certo tempo, un lavoro gratis se acquisisco apprendimenti e competenze personali che potrò “spendere” per la mia affermazione professionale e per la mia maturazione umana e sociale». Certo questa frase sottende una “scelta” da parte di chi offre la prestazione di lavoro, e non l’obbligo di una corvée: «Chi accetta un lavoro gratis senza alcun tipo di corrispettivo o convenienza, infatti, sbaglia». Il punto è che qualcuno a cui, in libertà, convenga lavorare gratis piuttosto che non lavorare per nulla, ci sarà sempre. Per accrescere i propri contatti, sviluppare le proprie competenze, per mettersi alla prova o semplicemente per mettersi in mostra. Perché non rispettare questa scelta? «Il mercato si regge sul principio di reciprocità. Io do qualcosa a te e tu la dai a me. Questo però non può essere riconducibile al mero baratto economico». È il principio di Adam Smith secondo il quale l’economia è un mezzo per la crescita morale delle persone e per la crescita collettiva della società, non viceversa. Ragion per cui, in un vero mercato, non vige soltanto l’utile, ma anche il buono e il gratuito. «Vogliamo forse eliminare il “volontariato” e la “la cooperazione a carattere di mutualità” dalla nostra Costituzione e dalla nostra vita sociale?», si chiede Bertagna.
Ciò che potrebbe servire davvero, dunque, è riportare nel mercato l’etica e la politica nel senso classico del termine: la platonica arte regia per la buona convivenza civile. Regole sociali e politiche che colpiscano lo sfruttamento, l’aggiramento e l’abuso di certi strumenti sono indispensabili. I furbi vanno puniti. Ma i tirocini, ad esempio, quando non sono usati per mascherare veri rapporti di lavoro senza obiettivi formativi, dovrebbero invece essere ritenuti indispensabili per la crescita formativa del giovane. Non a caso, continua Bertagna, «i tirocini curricolari non sono mai pagati, sebbene non escludano che gli studenti, sempre accompagnati, sostenuti e verificati dal tutor aziendale, proprio in nome del metodo didattico dell’alternanza tra teoria e pratica, possano e debbano anche svolgere alcune attività di lavoro. È del resto impossibile pensare di formare un giovane senza metterlo alla prova. Devo capire se il ragazzo è in grado di “tirare il carretto” non in qualche modo, ma bene, e non facendo male né a se stesso né agli altri, e sapendo altrettanto bene teoricamente, scientificamente, perché va “tirato” in quel modo e non in un altro. Considerare questo come sfruttamento è un controsenso».
Condizioni per cui vale la pena lavorare gratis dunque ci sono, e lo ha ricordato anche Beppe Severgnini con la regola PIPPO sul Corriere della Sera:
PER SCELTA: Rinunciare al compenso è una libera scelta; ma dev’essere libera davvero. Chi s’impegna nel volontariato lo sa. Se una ragazza ha bisogno di guadagnare e viene retribuita con vaghe promesse, non sceglie: subisce. Non è con gli incoraggiamenti e le pacche sulle spalle che si paga l’affitto.
INVESTIMENTO RECIPROCO: Un ragazzo vuole capire se è adatto a un lavoro, e se il lavoro è adatto a lui. Una nuova iniziativa ha bisogno di un periodo di rodaggio. Un gruppo di giovani si mettono insieme e decidono di non cercare subito un reddito. Si può lavorare gratis, in questi casi. È un modo di costruire il futuro.
PERSONE SERIE: Molte offerte di impiego gratuito arrivano da persone/organizzazioni poco serie. Gente con cui non si dovrebbe prendere neppure un cappuccino, figuriamoci lavorare. Come si capisce? Si capisce. Ma talvolta l’ansia di trovare qualcosa da fare è tale che non si vuol capire.
PATTI CHIARI: Il periodo di prova non può allungarsi troppo: questo dev’esser chiaro da subito. E’ come per i fidanzamenti: ci si sposa o ci si lascia. Trasformare il provvisorio in definitivo può far comodo a qualcuno (di solito, a un maschio). Ma non conviene.
OCCASIONALMENTE: Prestare la propria opera gratuitamente dev’essere, comunque, un’eccezione. Il datore di lavoro che trasforma l’eccezione nella regola non è una persona seria (vedi punto 3). E’ accaduto con lo stage. L’ho detto e l’ho scritto, lo ripeto: doveva essere un modo in cui le imprese aiutavano i ragazzi, è diventato un modo in cui i ragazzi aiutano le imprese.
Puntare il dito contro i ragazzi che scelgono di lavorare per certi periodi senza un ritorno economico è quindi un errore, oltre che un’inutile guerra tra poveri. Non da meno, imprenditori che accettano di pagare un prodotto a un costo di mercato troppo basso per risparmiare, corrono un rischio. Il proprietario di un locale, ad esempio, che faccia suonare solo musicisti praticoni che lo fanno per passione – e perciò costano poco – e non per professione, non riuscirà a garantire la stessa qualità alla clientela che, presumibilmente, alla lunga non si affezionerà al locale. Così per un sito internet improvvisato o un servizio fotografico mal fatto. I veri professionisti non dovrebbero sentirsi in competizione con chi fatica per farsi esperienza. Almeno in un mercato del lavoro che funzioni.
La guerra allo sfruttamento non deve quindi cessare. È recente la denuncia di Enzo Iacopino, presidente dell’Ordine dei giornalisti, contro la lettera del giornale La voce di Romagna che, nonostante milioni di fondi pubblici, ha deciso di tagliare le retribuzioni dei propri collaboratori. Iacopino ha cominciato una vera e propria battaglia contro gli abusi: «Non sono solo i giornali cartacei nazionali o regionali che applicano tariffe curiose, con picchi di fantasia di redazioni che tagliano gli articoli dei collaboratori per portarli al di sotto delle battute che vengono incassate gratuitamente dall’editore: ma è deontologicamente corretto questo comportamento?»
Le distorsioni del mercato sono ovunque: ragazzi che ai colloqui di lavoro sono costretti a presentare progetti che, altrimenti, le aziende pagherebbero cari; concorsi online che mascherati da crowdsourcing diventano un vero e proprio mercato delle idee gratuito – tranne che un premio, spesso misero, per il vincitore -, e così via.
Non è questo il mercato del lavoro di cui abbiamo bisogno e le aziende si trovano spesso in una condizione di forza rispetto chi è in cerca disperata di un lavoro. Chi compie sacrifici per inseguire la propria passione però, ci sarà sempre e, anche se alcuni faticano a capirlo, questo dovrebbe essere quantomeno rispettato.