«L’associazione mafiosa oggetto di indagine otteneva la liquidità necessaria per proseguire nella sua illecita attività finanziaria, anche grazie alla complicità di alcuni dirigenti e funzionari di istituti di credito soprattutto postali, i quali omettevano di esercitare i controlli anti-riciclaggio previsti dalla legge».
Più chiaro di così il Giudice per le indagini preliminari del tribunale di Milano, Simone Luerti, non poteva essere.
Basterebbero queste quattro righe per capire la trama di questa storia. Quattro righe contenute all’interno dell’ordinanza di custodia cautelare, che lo scorso 5 marzo ha portato all’arresto di 40 persone, e che ha portato gli inquirenti sulle tracce di quella che è stata definita una vera e propria “banca autonoma” della ‘ndrangheta, individuata a Seveso, provincia di Monza e Brianza, a disposizione di affiliati e imprenditori in difficoltà che si vedevano prestare denaro a tassi che variavano dal 15 al 20 per cento. Tassi evidentemente usurari, considerando che la soglia massima del tasso ufficiale annuo stabilito dalla Banca d’Italia è attualmente dell’11,32% annuo.
Una banca non si crea dal niente, tantomeno quando i suoi “dirigenti” risultano essere personaggi già finiti nei guai più di una volta con la giustizia. In tre anni di indagini gli investigatori, coordinati dai pm della Direzione distrettuale antimafia di Milano Ilda Boccassini e Paolo d’Amico, hanno quindi scoperto come Giuseppe Pensabene, dominus della “banca clandestina” e più volte sfiorato dalle indagini sulla criminalità organizzata in Lombardia, sarebbe riuscito a trovare risorse per l’attività di esercizio (abusivo) del credito. Oltre all’usura in senso stretto, Pensabene e soci avrebbero imbastito altre due attività:
- il prestito di denaro a “imprese amiche”, alcune di proprietà stessa degli ‘ndranghetisti,
- e la “compravendita di denaro”.
Imprese del tessuto lombardo si appoggiavano alla struttura per creare fondi neri attraverso l’erogazione di denaro che gli imprenditori avrebbero ripagato con assegni e trasferimenti con provvigione al 5%, una somma comunque inferiore a quella che avrebbero dovuto pagare in tasse allo Stato se avessero dichiarato i patrimoni alle autorità fiscali. «Dobbiamo essere come i polipi, mettere i tentacoli dappertutto, perché con questa crisi ci cono le condizioni per poterlo fare», dice lo stesso Pensabene intercettato dagli investigatori. «Ci vuole la Banca d’Italia? Qui ogni giorno transitano 30-40-50mila euro», aggiunge uno dei suoi soci.
Per operare però l’organizzazione diretta da Pensabene, la cui base operativa era un ufficio detto “tugurio”, avrebbe avuto bisogno di complicità, omessi controlli ed entrature. Dalla consulenza di un professionista, il broker Emanuele Sangiovanni, che intercettato specifica a Pensabene che non vuole fare il prestanome, ma «io voglio veramente fare parte della … della famiglia» ed essere socio. È col supporto di Sangiovanni che l’organizzazione si ritrova già pronte società di comodo in Svizzera. Scrivono gli investigatori: «Concretamente Sangiovanni Emanuele mette a disposizione dell’associazione mafiosa de qua le sue società svizzere e le sue società italiane, per “schermare” i capitali illeciti nel frattempo acquisiti, presentandosi in sostanza come la “faccia pulita” dell’associazione criminale». Il broker farà di più offrendosi come spallone per portare in Svizzera 173mila euro frutto delle usure di Pensabene e soci. D’altronde, lo ha ribadito anche il capo della Squadra Mobile di Milano Alessandro Giuliano, «questo sistema criminale finanziario sarebbe impossibile senza l’appoggio di ambienti che non appartengono all’organizzazione, in particolar modo imprenditori e funzionari pubblici».
Ecco dunque che oltre a imprenditori, broker finanziari e affiliati alla ‘ndrangheta (lo stesso Pensabene risulterebbe essere affiliato almeno da metà degli anni Ottanta), sono finiti ai domiciliari anche il direttore e il vicedirettore dell’ufficio postale di Paderno Dugnano, Vincenzo Bosco e Walter La coce. Secondo le indagini i due, in cambio di ricompense da 400 e 1.000 euro si sarebbero resi complici per mettere a disposizione somme di denaro contante alle società di Pensabene e dei suoi sodali fino a somme di «200- 300 mila euro per volta, omettendo», scrivono i magistrati, «le segnalazioni dovute in base alle leggi antiriciclaggio, e consentendo a volte il prelievo di somme anche nel caso in cui il conto corrente postale della società di copertura non avesse le relative disponibilità». In merito è intervenuto anche il pm Paolo d’Amico che, insieme a Ilda Boccassini, ha coordinato l’indagine degli uomini della Mobile di Milano: «Pensabene preferiva utilizzare le Poste, dove mandava i suoi scagnozzi a ritirare anche 100-200mila euro al giorno – ha spiegato ancora d’Amico – e dove i dirigenti conniventi non segnalavano niente all’antiriciclaggio. Bisogna intervenire a livello legislativo, perchè le Poste sono ormai una vera e propria finanziaria».
In effetti Pensabene conosce bene il metodo e il settore: «Io con le Poste pure, posso fare pure trecento (300mila euro, ndr) a settimana, al giorno», dice lo stesso a uno dei suoi soci. «L’ho aperto di là pure a Seregno (il conto postale, ndr) … lì mangiano, Peppe … non vogliono neanche la dichiarazione prima … gli do la percentuale a … anche l’assegno. Stai tranquillo, capito? Perché mangiano qua». Annotano infatti gli investigatori che «l’ufficio postale presso il quale vengono eseguite le maggiori movimentazioni è quello di Paderno Dugnano (MB), ma analoga disponibilità a consegnare il denaro contante senza nulla segnalare è stata riscontrata negli uffici postali di Desio (MB), Cinisello Balsamo (MI), Rho (MI), Cesano Maderno (MB), Seveso (MB) e Seregno (MB). Si sottolinea comunque che, oltre che agli sportelli presso cui sono accesi i conti, le operazioni avvengono anche presso altri sportelli e/o filiali».
Tra gli arrestati, a gestire, secondo gli investigatori, la “cassa per i detenuti”, c’era Domenico Zema, detto Mimmo. Ex assessore all’Urbanistica del comune di Cesano Maderno in quota Forza Italia, già arrestato nel 2000, poi prosciolto dalle accuse. Finita la carriera politica, si è dato al settore del mattone. Secondo i magistrati antimafia di Milano era lui che insieme a Pensabene, che definisce lo stesso Zema (sposato con Loredana Moscato – figlia di Giuseppe Annunziato Moscato detto “Peppe”, ex capo della locale di Desio arrestato nell’operazione Infinito) “uomo di storia, di fatti, di rispetto, di amicizia, di esperienza, di conoscenze”, coordinava la raccolta di fondi a sostegno dei parenti degli affiliati alla locale finiti in carcere. Zema suggeriva poi al presunto reggente, cioè Pensabene, come investire le grosse somme di denaro contante e come conservare meglio i capitali. L’uscita dalla vita politica però non lo avrebbe allontanato completamente dall’ambiente. «Ha portato una persona lui su al vertice», dice Pensabene intercettato a un altro degli indagati, «che oggi è al vertice qua che si chiama …. Questo qua è il braccio destro di Formigoni.. Ponzoni… Lo ha appoggiato forte Zema tutte le amicizie sue, i voti suoi glieli ha dati tutti a questo Ponzoni. Poi hanno litigato e..”. Il riferimento è all’ex assessore regionale Pdl Massimo Ponzoni, arrestato nell’ambito dell’inchiesta della procura di Monza sul ‘crac Pellicano’.